Due Oscar e tanto successo per una delle commedie più riuscite della storia recente del cinema americano.
Little Miss Sunshine è stato uno dei casi più interessanti del cinema americano degli ultimi anni. Una commedia piccola (per produzione) ma con un cast di primo livello, leggera ma a suo modo sofisticata, ha conquistato critica e pubblico con la sincerità delle sue intenzioni e un’ironia piena di sfumature. Amara, divertente, mai sguaiata anche nei momenti più comici, l’opera di Dayton e Faris è un gioiello della commedia americana indipendente, genere del quale riprende situazioni e trovate, rileggendoli in modo originale.
Al centro del film c’è la famiglia Hoover, padre energico ma a picco nel lavoro, madre insoddisfatta, nonno cocainomane, zio aspirante suicida, figlio in voto di silenzio. Tutti insieme “sgangheratamente” accompagnano la figlia più piccola – simpatica e un po’ soprappeso, ossessionata con i concorsi di bellezza – alla gara per ragazzine più celebre della California, Little Miss Sunshine appunto. Ragioni economiche e logistiche porteranno l’improbabile comitiva a decidere di raggiungere Los Angeles dal Nuovo Messico a bordo di un vecchio furgone.
Il primo topos classico che il film va a toccare è quello del cinema on the road, alleggerito e corretto. Il viaggio da Albuquerque alla California è il pretesto per affrontare i fantasmi della famiglia, le delusioni lavorative, i rapporti incrinati, le ansie dei genitori e dei figli. Non manca la malinconia, provocata dalla delusione che si respira nella vita dei protagonisti; non mancano le ferite causate da un amore forse finito, dal lavoro, dalla solitudine.
C’è un che di cinico nel modo in cui i registi ci presentano la famiglia Hoover, saltando il passaggio della famigliola felice della classe media americana e andando a scavare subito nel caos che si agita sotto la superficie normale. La normalità, in questo caso, è bandita dall’inizio. L’unica felice sembra la piccola Olive, sorridente mentre prepara il balletto per il concorso e ascolta le sue canzoni nel furgoncino inquinato dai veleni dei suoi parenti; ma noi spettatori siamo portati a guardarla con gli occhi di chi sa che, per una ragazzina carina ma lontana dal prototipo della bambolina bionda, le porte (infernali) dei concorsi di bellezza sono destinate a rimanere chiuse.
All’ombra della malinconia, i due registi sono bravissimi ad inserire gag comiche irresistibili. I protagonisti vanno giù pesante gli uni con gli altri, ma all’apice della cattiveria c’è sempre un momento leggero che fa sorridere lo spettatore e azzera la tensione negativa tra i membri della famiglia, riportandoli tutti dalla stessa parte. La stessa natura leggermente caricaturale dei personaggi – in particolare del fenomenale zio di Steve Carell e del capofamiglia Greg Kinnear – ammorbidisce i toni.
Con un occhio al cinema on the road e l’altro ai racconti di famiglie sui generis, Little Miss Sunshine riesce a mantenere la sua sincerità senza mettere troppo zucchero, in marcia verso una “redenzione” scontata ma non banale. Col passare dei minuti i personaggi rimangono tutti inadeguati e, anzi, altri elementi aggravano il loro status di perdenti; ma imparano a convivere con gli altri e con se stessi e a lavorare come squadra, perché dopotutto “sono una famiglia”. La risoluzione finale non passa dalla trasformazione in vincenti ma dal trovare una propria strada, disordinata e caotica, allo stare nel mondo e al sopportarsi/supportarsi a vicenda.
Il finale nell’insopportabile cornice di un concorso di bellezza per bambine, programmate sin da piccole ad essere innaturalmente perfette, fa risaltare il percorso di riavvicinamento della famiglia Hoover, unita dall’accettazione delle reciproche imperfezioni. Con un tocco leggero da comedy sofisticata e un montaggio rapido che esalta le trovate comiche senza rinunciare alla poesia, Little Miss Sunshine è destinato a diventare col tempo un piccolo cult, di quelli che riescono nella difficile impresa di farci sorridere e lasciare una traccia, che sia una scena, un messaggio, un dialogo, impressa nella memoria.
Regia di Jonathan Dayton e Valerie Faris, con Greg Kinnear, Toni Collette, Steve Carell, Paul Dano, Alan Arkin, Abigail Breslin
Durata: 100 minuti
Genere: commedia
Voto: 7/10
(Fonte foto: Rete Internet)