Le ricette di Biagio. La versione ” Michelemmà” degli spaghetti alla Nerano

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Usando zafferano e menta l’autore smonta le insidie delle zucchine e interpreta con originalità una ricetta classica della cucina campana. I trucchi di un cuoco per asciugare le zucchine. L’Oriente nella canzone e pittura napoletane.

Ingredienti: 400 gr. di spaghetti, 500gr. di zucchine,1 bustina di zafferano, pepe, provolone del monaco e foglie di menta.
Tagliate a rondelle le zucchine ,friggetele con olio extra, lasciate che si liberino dall’ untume, e poi ne frullate una metà. Intanto mettete a bollire l’acqua, aggiungete la bustina di zafferano, calate gli spaghetti, che toglierete al dente. Amalgamateli con le zucchine intere, con quelle frullate e con un parsimonioso spruzzo di provolone grattugiato, aggiungete un pizzico di pepe, coronate con le foglie di menta.
Biagio Ferrara

Delle zucchine non sopporto il colore, un verde viscido, interrotto qua e là dal verde vescica: insomma un verde che è immagine significativa del “vizio” primo dell’ortaggio, e cioè una dolcezza acquosa che all’improvviso schiude punte di cupa acidezza, così robuste da minacciare perfino la nobiltà del sapore della pasta. Non per caso molti, a cui le zucchine non sono gradite, le mangiano solo nascoste e fuse nella frittata, nel “filoscio”. Fritte, le zucchine diventano ancora più ambigue, poiché conservano dentro di sé gocce di umore amaro e in più si arrognano, si accartocciano in rappe che pungono la lingua.

Il rimedio primo è asciugare le zucchine, liberarle da umori di unto, di acqua e di acido: perciò vanno tagliate in sottili rondelle: così suggeriscono i Maestri di oggi. In tempi lontani vidi il cuoco di una trattoria sarnese, reso Maestro dall’esperienza e non dalle medaglie, tagliare le zucchine, sì, a rondelle, ma in modo che un arco della rondella fosse più spesso dell’arco opposto: il “trucco” rallentava e mitigava l’arrognamento, e inoltre un movimento netto e lieve del pollice sugli sbilenchi dischetti ne spremeva grande parte dell’umore.

Biagio Ferrara combatte le insidie delle zucchine non solo con il provolone del Monaco, che ha la forza per asciugare i succhi negativi, ma cerca l’aiuto dello zafferano. Che mi pare la spezia più adatta per esorcizzare le insidie dei “cucuzzielli”: con il giallo, solare e allegro, smorza e spegne l’umor tetro del verde penitenziale, e con l’ aroma ampio, intenso, impetuoso e leale costringe l’ortaggio a mettere a disposizione della pasta la sua sola virtù, quella nota chiara e vegetale che persiste nel suo primo sapore, in quello che si trasmette immediatamente alla bocca. Lo zafferano porta un colore “orientale” in questo piatto nato e battezzato in Costiera.

E il piatto l’accoglie con naturalezza, perché nella storia di Napoli, del Golfo e della Costiera non è difficile trovare i segni della presenza dell’ Oriente: i traffici di Amalfi, la minaccia de pirati “barbareschi”, che per i napoletani erano semplicemente “turchi”, i corallari di Torre del Greco catturati dalle navi del bey di Tunisi e riscattati con bauli zeppi di danaro, e i molti schiavi “ turchi” che nel ‘600 diedero colore esotico ai palazzi dei nobili napoletani e anche al “castello” ottajanese dei Medici.

E’ difficile comprendere il senso autentico di una delle prime canzoni napoletane, “Michelemmà”, che a lungo venne attribuita al genio di Salvator Rosa, pittore grandissimo, appassionato di musica, e titolare, intorno al 1640, di “una specie di cabaret”, che egli aveva aperto a Roma – racconta Paliotti – con Niccolò Musso, “prete spretato”. “Michelemmà” dovrebbe significare “Michela è mia”: Michela è “ nata mmiez’’o mare” “durante una scorribanda di pirati barbareschi” (V. Paliotti). Pochi uomini possono resistere allo splendore dei suoi occhi, ma ella dice di no a tutti, e gli innamorati respinti si uccidono “a due a due”. Non è questo il luogo adatto per raccontare “i falsi” che vennero costruiti, anche da Salvatore Di Giacomo, intorno all’attribuzione di questa canzone a Salvator Rosa, e per discutere del significato del testo.

Diciamo solo che secondo alcuni “Michela” è l’isola d’Ischia, la “scarola, oje na scarola” dove “li turche se ce vanno/a reposare”. “Nelle isole del golfo di Napoli – ricorda Paliotti – gli ischitani vengono chiamati iscaroli”. Ma l’Oriente è presente nella sensibilità napoletana, nel suo languore spesso esasperato, talvolta fino alla furia della violenza e del sangue, è presente nella musica – si pensi alla sperimentazione di Eugenio Bennato – ispira la pittura, al di là di quell’orientalismo di scuola che segnò molti artisti europei dell’Ottocento.

Certamente non è scolastica l’ “odalisca” di Domenico Morelli, la cui immagine apre l’articolo. Il velo, nel coprirle la parte inferiore del volto, la chioma e la fronte, mette in risalto l’intensità dello sguardo, e anche una punta di ironia, che è, per così dire, commentata dal nastro rosso che esce dalla somma dei bianchi e scorre lungo la scura densità del mantello. Il quadro fu comprato da Giuseppe Verdi nel 1873 e ora si trova a Milano, nella Casa di Riposo dei Musicisti. Anche la storia di questo quadro merita di essere raccontata.

Per ora, vi invito a trovare una corrispondenza tra la vittoria dello zafferano sulle zucchine e lo sguardo sicuro e lievemente “sfuttente” di questa “odalisca”, che potrebbe anche essere una “napoletana” rapita e trascinata (?) nel serraglio. Il vino? Un coda di volpe che sappia di frutta: che sia frutta matura, adatta a calmare l’allegria impetuosa dello zafferano. E mi perdonino i Maestri dell’enosofia.
(Foto: Domenico Morelli, L’odalisca, 1872-’73)

L’OFFICINA DEI SENSI