La mafia aveva una morale. Prima di Grillo, l’hanno detto politici, studiosi, preti. E un Procuratore della Repubblica

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Le dichiarazioni di V.E. Orlando. Gli epitaffi in onore di “don” Calogero Vizzini. L’omaggio e l’augurio del Procuratore Lo Schiavo. La cerimonia di investitura di “don” Francesco Di Cristina, e la memorabile filastrocca di un cantastorie.

La mafia aveva una sua morale, ha detto Grillo, poi è stata contaminata dalla politica e dagli affari. E si è imbarbarita. Su queste parole è esploso lo stupore universale. Si è stupito il sig. Renzi, si sono stupiti altri politici di vario calibro: avrebbero fatto bene a star calmi.

La parola”morale” non ha, in origine, connotazioni né buone, né cattive: indica solo l’insieme dei “mores”, dei costumi, che sono la sostanza del comportamento di un individuo. Di qualsiasi individuo. Del resto, se la mafia non avesse una “morale”, quei rappresentanti delle istituzioni che fanno trattative con i mafiosi sarebbero degli irresponsabili, degli ingenui. E mi fermo qui: aggiungo solo che le “bibbie” sulla storia della mafia, e cioè i libri di Giuseppe Carlo Marino e di Salvatore Lupo, dimostrano che lungo tutta quella storia corre un filo rosso: le relazioni dirette, indirette, segrete, più o meno, tra i mafiosi e “pezzi” dello Stato. Vediamo, ora, perché Grillo non ha detto nulla di nuovo.

Giuseppe Pitrè, il più grande studioso del folklore siciliano, morto nel 1916, scrisse che la mafia era “l’esacerbato concetto” della forza individuale, che veniva individuata come il solo possibile “arbitro” di ogni “urto di interessi e di idee”: il mafioso era “insofferente alla prepotenza altrui”. Il siciliano Vittorio Emanuele Orlando, l’insigne giurista che come Presidente del Consiglio portò l’Italia alla vittoria nella I guerra mondiale, dichiarò in un pubblico comizio: “Ora io vi dico che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino all’esasperazione, l’insofferenza, portata fino al parossismo, contro ogni prepotenza, la generosità che fronteggia il forte, ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte, se per mafia intendiamo questi sentimenti e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni indivisibili dell’anima siciliana e mafioso mi dichiaro e sono fiero di esserlo”. (Il discorso è citato da P.Pezzino, in: M.Aymard- G.Giarrizzo, La Sicilia, Einaudi, 1987).

Calogero Vizzini, il capo dei capi della mafia, “morì nel suo letto e nel suo paese, di morte naturale, il 10 luglio 1954. Gli resero onore con un funerale che fu un trionfo, presieduto da monsignori, autorità pubbliche e dignitari dell’Onorata Società provenienti da tutta l’isola”.
Così scrive Giuseppe Carlo Marino in “ Storia della Mafia” (Newton Compton, 2006, pag. 208). E ci dice che sulla porta della chiesa di Villalba c’ era “un’enorme scritta bordata di nero”, che respingeva gli “ultimi strali” scoccati contro il Padrino dall’ odio e dall’invidia, ne esaltava la “gentilezza del tratto”, la “nobiltà del cuore”, le “larghe vedute nei commerci”, ricordava che egli aveva anticipato la riforma agraria, aveva sollevato “le sorti degli oscuri operai della miniera”, che era stato “nemico di tutte le ingiustizie, umile con gli umili, grande con i più grandi”, e infine che aveva dimostrato “con le parole e con le opere che la mafia sua non fu delinquenza, ma rispetto della legge, difesa di ogni diritto, grandezza d’animo. Fu amore”.

A seguire, nella stessa pagina, Giuseppe Carlo Marino ci ricorda che il procuratore Giuseppe Lo Schiavo, “senza alcun imbarazzo… rese un contrito omaggio alla salma del capo” della mafia e scrisse: “Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è un’ inesattezza. La mafia rispetta la magistratura e la giustizia. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge la mafia ha affiancato le forze dell’ordine. Possa l’opera del successore di don Calogero Vizzini essere indirizzata sulla via del rispetto della legge”.

Nel marzo del 1961, quando si celebrarono i funerali del boss Francesco Di Cristina, sulla porta della chiesa di Riesi venne pubblicato questo epitaffio: “In lui gli uomini ritrovarono una scintilla dell’eterno rubata ai cieli. Realizzandosi in tutta la gamma delle possibilità umane fece vedere al mondo quanto potesse un vero uomo. In lui virtù e intelligenza, senno e forza d’animo si sposarono felicemente per il bene dell’umile, per la sconfitta del superbo”. Nel libro “I padrini” il prof. Marino descrive la cerimonia in cui Giuseppe Di Cristina, avendo deciso di abdicare, passava il bastone di comando al figlio Francesco.

E’ il 1937 o il 1938, è certamente l’ultima domenica di luglio, poiché in quel giorno a Riesi e nelle comunità siculo- americane di Boston e di altre città degli Stati Uniti “si festeggia il patriarca San Giuseppe, patrono degli emigrati siciliani”. E’ sera, Francesco Di Cristina, attorniato dagli amici, aspetta ai piedi della scala della chiesa, a pochi passi dalla porta di casa sua, il ritorno della processione. La statua del Santo si ferma davanti a lui, dalla folla esce il padre e va a baciare il figlio sulle guance, tre volte. E don Francesco si inchina al Santo e al padre, “devotamente..Dal popolo e dalle autorità civili e religiose si levò un applauso scrosciante, mentre le campane suonavano”.

Un cantastorie locale compose, su questa cerimonia, una filastrocca che il prof. Marino pubblica per intero. Scrive il cantastorie che dopo la cerimonia i mafiosi, ritiratisi al chiuso, banchettano alla faccia dei “cretini ca si dicinu cristiani” e fanno penitenza. Però, gli abitanti di Riesi non sono del tutto “cretini”: la notte, nelle loro case, si domandano quale dei due “patriarchi” convenga pregare: San Giuseppe, che è di “carta e di gesso”, o don Francesco, che è vivo, “può fare miracoli, può dettare leggi e disfarle”? La risposta è semplice: conviene obbedire a Di Cristina, “se nò la fossa ci fa scavari”.

Del resto, del “San Giuseppe portato a spalla in processione si avvalgono i preti, normalmente pronti a futtirci tutti cosi”, “a fregarci tutto quello che possediamo” spiega il prof. Marino: ma quella proposizione siciliana è chiara, universalmente: non ha bisogno di traduzione. Lungo è l’elenco degli studiosi, anche recenti, che dopo aver messo le mani avanti con i prudenti “ma, se, però, insomma”, parlano infine di codici d’onore della mafia, di un repertorio rituale di gesti, di battute e di comportamenti – tutti in mostra nel “Padrino”- di cui si servono i padrini per raggiungere quello che Salvatore Lupo considera l’obiettivo più importante, il fondamento dell’autorità del boss: “incutere il terrore con la sola fama, non tanto con la presenza fisica”.

La storia della mafia e della camorra è, prima di tutto, la storia sociale delle sorgenti della violenza, e delle forme del “terrore”.
(Fonte foto: Rete Internet)

LA STORIA MAGRA