A cosa serve la Scuola? Chissà se se lo è mai chiesto chi in questi anni ha tagliato fondi e ore di lezione, e deciso di mandare in pensione i docenti a 67 anni. Di Ciro Raia
Se ne è andato già il primo quadrimestre. In tutte le scuole si stanno tenendo i consigli per la valutazione degli alunni, che, al di là dei voti da assegnare, rappresentano anche un momento di riflessione sul triste momento attraversato dalla scuola italiana, sullo sperpero delle energie professionali, sulle occasioni formative offerte, su quelle mancate, sulla percezione (negativa, scadente, minimale) che in genere si ha dell’insegnamento di Stato.
Sono questi i momenti in cui, senza mai essere nemmeno solo sfiorati dall’idea di una regionalizzazione dell’istruzione, si è rinvigoriti nel pensiero di doversi battere per una scuola che si attrezzi ad essere una vera risorsa per (e del) territorio, con la conseguente valorizzazione (e concertazione) di tutte le istituzioni, che progettano modelli di intervento adatti a “quel territorio”. E con la consapevolezza che una scuola -agente di cambiamento- può essere tale solo se valorizza le risorse interne (docenti e discenti), che non devono e non possono fare i conti con i progetti delle politiche autarchiche.
Le restrizioni, infatti, mal si sposano con la fiducia! E il fai da te, i continui ricorsi al volontariato, i reiterati richiami a una professione-missione non sono più congrui ad una società da terzo millennio, cablata, multietnica, connotata da criteri di scientificità eccezionali, proiettata alla formazione di una identità transitoria ma pur sempre dai forti radicamenti nella terra di provenienza di ciascuno. E il diritto allo studio? No, non può continuare ad essere una dichiarazione di nobili intenzioni. Al di là di una revisione degli interventi didattici, è opportuno agire in modo globale in tutte le realtà territoriali. Ognuno per la sua parte deve concorrere a rendere percorribile il diritto ad avere pari opportunità educative.
Ciò significa superare anche le contraddizioni che impongono agli enti locali di esigere balzelli sui servizi a domanda (mense e trasporti), che non consentono di erogare (quanto meno in tempo utile) libri gratuiti per la scuola dell’obbligo, che educano a pensare alla cultura come a qualcosa di effimero e fortemente voluttuario. Per non parlare, poi, del dramma dell’edilizia scolastica. Quanti sono i locali che ancora sono adattati a scuola insieme a quelli maltenuti e a quelli incoscientemente resi agibili? Quanti fitti scolastici si pagano ancora ad associazioni malavitose? E quanti scheletri di cemento chiedono da tempo di essere trasformati in aule? Avere la scuola è un diritto del cittadino; andare a scuola è un dovere del cittadino. Bisogna, però, creare le condizioni perché venga assolto il dovere.
Passando al versante della didattica bisogna avere il coraggio (e l’intelligenza) di rivisitare i programmi, sforzarsi di far capire che i segmenti di saperi non costituiscono il sapere. In altri termini, non si può pretendere che la scuola sia un enciclopedia di saperi; ma che sia un luogo, un’occasione, una risorsa sulla strada di tutti, perché ciascuno sia educato a governare, gestire, analizzare, selezionare gli infiniti files provenienti dalle nanoparticelle delle acquisizioni cognitivo-informtive, questo sì che lo si deve pretendere!
E, poi, sempre nel campo della didattica, è necessario rivedere le superate abitudini di un insegnamento in funzione unicamente eurocentrico, aprendo lo studio della storia come della letteratura, delle scienze come dell’antropologia ad una ricostruzione della vicenda umana a 360 gradi. I comportamenti multirazziali e multietnici hanno bisogno di stile, di azione, di modi di pensare, di modelli flessibili. Ed anche l’editoria scolastica deve essere revisionata, diversamente pensata e costruita. Altrimenti diventerà impresa ardua (se non impossibile) tentare di integrare borghesi e proletari (lo so, è un termine in disuso), cinesi ed albanesi, rom e drop out.
La formazione permanente è la condizione necessaria perché tutto quanto solo accennato possa veramente verificarsi. Ma è una condizione che non può passare solo attraverso la logica dei premi ai più bravi (con criteri di selezione rigidamente ispirati a una politica servile e clientelare) o di una progressione stipendiale, annunciata a ogni cambio di governo e di ministro e mai veramente attuata. Forse, la formazione permanente è l’unica condizione utile per produrre qualità, per poter rendere la scuola competitiva (cum petere = cercare insieme) nella soluzione di problemi complessi. Sarà possibile, forse, così poter rispondere alle sfide totali della società, educare ai grandi modelli, superare i muri delle conflittualità pseudo etniche, dei circuiti poveri e delle arroganze localistiche. E, forse, sarà anche possibile non morire più di sud e di nord; come, forse, sarà auspicabile non morire ancora di scuola (di mal di scuola e di male che la scuola procura).
Sarebbe come far scoccare un nuovo tempo: un tempo di speranza; un tempo in cui i diritti e i doveri non sono più enunciazioni di principi ma volani di civiltà.
Pensieri in libertà, elucubrazioni mentali, condizionamenti professionali dettati dalla suggestione del momento; anche tra le macerie (dell’istruzione) in cui ci stiamo aggirando, la valutazione resta l’atto più importante della scuola. È una resa dei conti, ma mai con finalità punitive. Chi ha sbagliato non deve essere eliminato, deve essere aiutato a riprendersi, a risollevarsi, a rimettersi in carreggiata. Chi utilizza la valutazione (e, per la verità, sono ancora tanti) in termini negativi si allinea al modello che certi ministri degli ultimi governi hanno voluto dare alla scuola di Stato: quello aziendale.
Fino all’ultimo respiro bisognerà lottare, per affermare il principio che la scuola non è un’azienda, gli studenti non sono materiali da modellare, gli operatori scolastici (presidi, docenti, amministrativi e collaboratori) non occupano un posto in una catena di montaggio finalizzata a una produzione industriale. Le scocche sono una cosa, le persone sono altro; le cerniere degli sportelli d’auto sono diversi dai gangli dei sentimenti umani; i materiali di risulta mandati al macero non sono equiparabili a cittadini a cui -per mezzo di una mancata istruzione- è negato il futuro.
Quanti guasti ha procurato e sta procurando la politica cialtrona degli ultimi anni. E quanti guasti ha procurato e sta procurando l’indifferenza degli addetti ai lavori, degli stessi fruitori dei servizi, di una società votata all’egoismo (non sono fatti che mi riguardano; non posso certo io, da solo, cambiare il mondo; la vita è breve, voglio godermela senza troppi pensieri, in fondo la scuola a cosa serve?).
Tra quindici/vent’anni, chi sopravvivrà, potrà veramente capire cosa avrà prodotto la politica dei tagli alla scuola, senza più essere tacciato di appartenenze ideologiche ormai superate. Avrà, chi sopravvivrà, la possibilità di verificare se i soldi risparmiati per la scuola saranno stati un investimento, se i docenti mandati in pensione a 67 anni avranno avuto la forza e l’entusiasmo necessario per affrontare una generazione distante anni luce dalla propria, se gli alunni italiani avranno acquisito competenze – oltre quelle richieste da standard europei e internazionali- spendibili in contesti fortemente tecnologizzati, transnazionali, poliglotti.
Facendo un rapido calcolo, un bambino che ha iniziato a frequentare la scuola in questo tempo (modello Gelmini) studierà (a termine di un percorso di studio di 13 anni) circa 1.287 ore in meno rispetto a un suo coetaneo dell’epoca pre-Gelmini. Saranno le famiglie (la maggioranza delle quali è in grave difficoltà finanziarie) o sarà la società (con la continua perdita dei posti di lavoro, la recessione, l’inoccupazione) a compensare le ore in meno offerte dalla scuola?
Domande oziose. In fondo, l’Italia, popolo di poeti, santi e navigatori, troverà sempre il modo per affidarsi a giullari di corte, a santi di cartone e a capitani di ventura senza macchia (!) e senza paura.
E, per questo, mica serve la scuola!