Garibaldi a Napoli: i liberali, gli “amici” camorristi. Il valore “filosofico” della storia “locale”

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Venerdì 7 novembre nell’aula “P.Cappuccio” del Municipio di Ottaviano Luigi Iroso presenta il suo libro “Napoli sfregiata” sulle vicende tumultuose e sorprendenti del passaggio dall’ ordine borbonico all’ordine dell’Italia liberale.

 La storia è nota, in tutti i particolari. Quando Garibaldi era già padrone della Sicilia, Francesco II cercò di salvarsi concedendo la costituzione . Ma era ormai “fuori tempo massimo ( F.Barbagallo)”. Le poltrone più scomode, quella di prefetto di polizia, prima, e poi quella di ministro dell’Interno vennero assegnate a Liborio Romano, avvocato, professore di diritto commerciale, liberale, massone, esule in Francia dopo i fatti del ’48. Don Liborio era tornato a Napoli nel ’54: aveva chiesto la grazia a Ferdinando II, che gliel’aveva concessa senza problemi. Una nota riservata delle spie borboniche in Francia lo aveva classificato, nel ’49, come personaggio di “nessuna entità, come il suo maestro Cozzoli”, Giuseppe Cozzoli di Molfetta, “vecchio dignitario del carbonarismo, quantunque analfabeta”.

L’esilio aveva raffreddato Don Liborio, che non partecipava a riunioni e non incontrava settari “riscaldati”: era a tal punto persona di “nessuna entità”, che la polizia di Ferdinando II non gli confiscò nessun “bene”, nemmeno una sedia. Nel 1860 la Direzione di polizia gli venne affidata, su pressione degli ambienti della borghesia moderata – sia di colore borbonico che di tinta liberale -, perché facesse proprio quello che lui seppe fare: garantire che il passaggio dal vecchio al nuovo ordine si svolgesse senza troppi problemi. Una sola strada portava a questo obiettivo: affidare il controllo della città ai camorristi. Don Liborio trattò con Salvatore De Crescenzo e descrisse l’incontro: ma si dimenticò di scrivere, nelle sue memorie, che negli stessi giorni ebbe lunghi colloqui con Fedele De Siervo, Enrico Pessina, e Giuseppe Vacca, tutti legati agli ambienti dei “galantuomini” della provincia e profondi conoscitori, il Pessina e il Vacca, del mondo del crimine organizzato.

Già sotto i Borbone, certamente durante i moti del ’30 e del ‘48, la polizia aveva “trattato” con la camorra. Se non ci fossero stati precedenti, né Liborio Romano, né altri avrebbero osato imboccare una strada così pericolosa. E la camorra non avrebbe avuto un tale riconoscimento, se non avesse dimostrato, nel ’48 e nel ’30, di poter controllare agevolmente la “plebe”. La quale- scrisse Marc Monnier, testimone diretto – nell’ estate del ‘60 era già pronta al saccheggio, e “aveva già preso in affitto delle botteghe per deporvi il bottino”. Marc Monnier giustificò don Liborio e contribuì a diffondere la notizia che era stato un generale borbonico a consigliare al ministro di “far ciò che l’antico governo faceva in caso di pericolo”. Certo, la scena di Garibaldi che entra in Napoli controllata da Salvatore De Crescenzo e dalla Sangiovannara ha la suggestione di un “arcanum”: pare che vi sia scritta tutta la storia successiva dell’Italia.

E tuttavia questa scena risulterebbe meno sorprendente, se conoscessimo meglio le relazioni tra camorra e polizia borbonica e se ci liberassimo dalla convinzione, assai diffusa in verità, che la camorra dell’’800 fu una folcloristica associazione di “plebei” capaci solo di esercitare violenza. In realtà, De Crescenzo,Nicola Jossa e Antonio Lubrano ebbero ingegno aperto, costruirono e diressero vere e proprie società commerciali, e dopo il ’48 strinsero rapporti diretti con i liberali, soprattutto perché intuirono che uno Stato liberale li avrebbe liberati, in parte, dalla concorrenza della polizia borbonica, sulla cui corruzione i giudizi più drastici vennero formulati da un poliziotto borbonico, Ferdinando Schenardi. Le “imprese” di cui fu protagonista, sotto i Borbone, la polizia di Ottajano, il Comune più importante, dopo Castellammare, della provincia della capitale fanno luce su un sistema che a un certo punto non conobbe più, a livello locale, alcuna regola: solo qualche Sottointendente riuscì a frenare l’esercizio quotidiano dell’arbitrio praticato dalle “guardie”.

Dopo anni di ricerche e di letture mi permetto di dire che gli studi sulla camorra napoletana dell’Ottocento trascurano, colpevolmente, le relazioni tra i camorristi di città e quelli di provincia. Di una camorra di provincia qualche studioso nega addirittura l’esistenza, poiché non riesce a convincersi della necessità di cercare questi camorristi non tra i “plebei”, ma tra i “galantuomini” che amministravano i Comuni e si dividevano appalti “e privative”, e che in parte vennero smascherati dalle indagini sul brigantaggio. Non a caso molti di questi “galantuomini” di provincia già nel ’48 erano liberali.
Dunque la storia locale, studiata in un certo modo, illumina aspetti importanti della storia alta. Ma soprattutto è un esercizio filosofico, aiuta a realizzare il “conosci te stesso”. Scritta in un certo modo, la storia di Ottajano, per esempio, aiuta un Ottajanese a capire quella parte della sua cultura e i modi di vedere e di pensare che vengono influenzati dall’ambiente, e dagli archetipi della storia della comunità.

Bene ha fatto Luigi Iroso ad aggiungere alle sue ricerche sui Comuni del territorio anche le pagine su “ Napoli sfregiata” da questo connubio tra camorristi e liberali. Altri ne hanno già scritto, ma di corsa: e invece è utile fermarci a riconsiderare le cose che credevamo di conoscere: la conoscenza è sintesi di particolari, e a ogni sosta si scopre che un particolare ci era sfuggito. E poi la scena dei capi della camorra, Tore ‘e Crescienzo, Nicola Jossa, Nicola Capuano e Ferdinando Mele, che vengono nominati commissari e ispettori di polizia è un “teatro” che non deve essere dimenticato: ogni tanto conviene rinfrescarne il ricordo.