Eve Arnold riuscì a “fotografare” il dramma della star, che prima volle diventare un mito, “il mito”, e poi sentì il bisogno di essere solo una donna. Fotogallery
Marilyn muore nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962. L’anno prima Eve Arnold l’aveva fotografata a lungo sul set del film “Gli spostati“: ma nessuno degli “scatti“ tocca la perfezione di questo, che Eve preparò ed eseguì in studio nel 1960. La fotografia è un intreccio di citazioni di quadri più o meno famosi. Come nella “Donna in piedi “ che C.W. Eckersberg dipinse nel 1841, un panno avvolge il fondoschiena dell’attrice e lascia scoperto solo l’incipit del solco che lo divide in due (François Boucher, il più grande pittore del fondoschiena, chiamava quel solco lo spacco della mela): e perché la sfida alla nostra immaginazione sia più intensa, nel quadro e nella fotografia questo incipit è un punto d’ombra ammorbidita dai riflessi dell’orlo luminoso del panno.
Eve Arnold vorrebbe indurci a credere che il centro reale e simbolico della sua inquadratura sia il filo della schiena, che Degas considerava il passaggio più complicato per un pittore di nudi di donna.
La fotografa segue la “ricetta“ del francese: una linea verticale in piena luce, tra una striscia di densa ombra, che è l’incavo della spina dorsale, e una fascia di chiaroscuro. Inoltre, Il filo della schiena di Marilyn è inquadrato nella “finestra“ centrale della spalliera della sedia, che è un intreccio di elementi curvilinei destinato ad esaltare, nel segno di un eccesso ironico, il fluido inarcarsi delle forme dell’attrice.
La donna di Eckersberg sta in piedi, Marilyn sta seduta. Nella storia delle immagini d’arte la donna nuda seduta o medita (nei quadri di Casorati e nelle fotografie di Bill Brandt, che la Arnold ammirava), o aspetta (nei quadri di Hopper), o si offre, come le donne sedute dipinte da Corinth Sorolla Balthus e Beel : l’offerta di sé spesso fa parte di un gioco in cui lo spettatore prima è persuaso di vedere nel quadro una donna – oggetto, e poi si accorge che la situazione si rovescia: è la donna che osserva lui, è lui che da quello sguardo viene trasformato in “cosa“. É uno degli aspetti più affascinanti e meno studiati della filosofia delle immagini (e non solo nell’arte): io osservo le figure di un quadro, ma anche le figure del quadro osservano me che le osservo.
Come la “Bagnante di Valpinçon“ di Ingres, Marilyn ci volge le spalle: sullo splendore delle spalle, della schiena e del fondoschiena è stato costruito il mito della sua sensualità . Spesso la perfezione delle forme suggerisce staticità , anche se il corpo è in movimento (come in alcuni quadri di Rubens): ma la perfezione del corpo di Marilyn si dispiega attraverso campi di tensioni e di impulsi: quel corpo vibra anche quando sta su una sedia, ci fa vedere, grazie anche alla torsione elegante della testa, le tracce dell’ultimo movimento e l’intenzione del movimento imminente. Ma la chiave della “immagine“ costruita da Eve Arnold è nel dettaglio del braccio grasso e tozzo che va a poggiare la mano informe sul collo della diva e le copre parzialmente la bocca: è una “trovata“ da surrealismo pop, un debito che la fotografa contrae con Magritte, con Dalì e con Warhol.
Quel braccio apre la fotografia a un flusso di significati, tutti possibili, tutti incerti. É il brutto volgare e violento che sconquassa la serena armonia del bello, è l’ironia che brucia le illusioni, è il peso della realtà che dissolve i sogni evanescenti. Quel braccio ci dice che tra noi e il mito, i miti di oggi, c’ è un abisso che nessuno può scavalcare, nemmeno il mito, costretto a restare per sempre nell’artificio del suo spazio: a Marilyn è precluso l’ingresso nella dimensione del nostro quotidiano. Non può venire tra noi. Quel braccio grasso e tozzo rivela che il centro della fotografia non è lo splendore del corpo, che il panno copre, ma non nasconde: è l’ambiguità dello sguardo, e Eve Arnold ci sfida a interpretarla.
Marilyn disse di sé: “Assorbo da tutti come una cartasuga“: forse si gira verso di noi per pregarci: cercate di comprendermi, non sono solo una carta assorbente, “non sono solo uno stemma araldico, l’emblema di una speranza in cui finzione e realtà si confondono.”. Sul “ Corriere della sera del lunedì”, il 6 agosto 1962, Giovanni Grazzini scrisse, in memoriam “Marilyn non era più una donna. É tornata donna il giorno in cui la follia le ha armato la mano contro sé stessa.”. Marilyn si gira verso di noi per rivelarci questa sua disperata risoluzione: non voleva più essere icona, voleva essere solo una donna.
Ma quella mano bastarda le copre la bocca e le impedisce di guardarci con la pienezza della sincerità , occhi negli occhi: le impone di stare su quella sedia, in “posa“, di recitare per sempre la parte dell’immagine di illusioni e desideri che si possono stracciare in un attimo. Secondo Cechov, “la morte non vuole gli stupidi“. Marilyn lo aveva capito. La morte le servì per dimostrare che non era una stupida.
(Foto di Eve Arnold)