A Marzo è partito il cosiddetto “bazooka” di Mario Draghi, l’arma utilizzata dalla BCE per dare liquidità al sistema finanziario e soprattutto combattere la deflazione.
Si tratta di un’operazione di allentamento monetario: il sistema europeo delle banche centrali acquisterà titoli sovrani, di agenzie e d’istituzioni europee, per 60 miliardi al mese fino a settembre 2016 o anche oltre, fino a che l’inflazione non sarà un “sentiero sostenuto” verso il 2%.
Per capire quanto i mercati siano sensibili a manovre di questo genere, basti pensare che prima di Natale, quando la notizia del prossimo provvedimento era semplicemente stata resa nota, i mercati videro un rialzo del 4%.
Il primo effetto è chiaramente sul tasso di cambio: più si stampa moneta, più questa si deprezza. Oggi il tasso di cambio tra euro e dollaro è 1.1212, in continua discesa. La svalutazione ha un effetto positivo sull’export europeo: i nostri prodotti risultano più economici per i Paesi esteri. Considerando che il 30% del Pil italiano è prodotto dalle esportazioni, l’influenza positiva è indubbia.
Il secondo effetto positivo è sui mutui. Il costo del denaro è più basso, le banche commerciali hanno più disponibilità a prestare, i tassi di interesse sono ai minimi storici – tassi fissi intorno al 3% e tassi variabili sotto il 2% – tutto ciò rende più accessibile accendere un mutuo e più convenienti mutui stipulati in anni recenti.
Terzo effetto positivo è sui BTp. I rendimenti dei buoni del tesoro italiani a 10 anni sono scesi del 2,60% circa; ciò è sinonimo di una progressiva riduzione della rischiosità degli stessi: l’aspettativa dei mercati è che la zona euro, grazie all’operazione della BCE, resterà integra. Un altro canale di trasmissione degli effetti del QE sull’economia è la Borsa: più i rendimenti dei titoli di Stato diminuiscono, più gli investitori sono attirati da investimenti maggiormente remunerativi. Di fatti Piazza Affari continua a chiudere in rialzo.
Il Quantitative Easing non può, però, non avere un lato oscuro.
Il problema principale, come sollevato da molti scettici, è che nell’economia europea la trasmissione della politica monetaria all’economia reale è molto meno efficiente che nell’economia americana. La differenza sostanziale è data dal panorama delle imprese. In Europa, ed in particolar modo in Italia, il tessuto economico è rappresentato da piccole e medie imprese, che ricevono l’80-90% del credito dalle banche. Negli Usa la maggior parte delle aziende si finanzia in grossa misura sul mercato finanziario, cosicché un’immissione di liquidità nello stesso ha su di esse un impatto immediato. Di fatti l’andamento del bilancio della Federal Reserve e i maggiori indici statunitensi vanno praticamente di pari passo.
L’altra critica è che l’immissione di moneta dovrebbe essere accompagnata da ulteriori provvedimenti, che rendano possibile e conveniente investire la liquidità che le banche sono eventualmente disposte ad erogare. In modo particolare sono i bilanci statali che dovrebbero muoversi nella stessa direzione di quelli delle banche centrali, lungo un sentiero espansivo.
I pericoli sono due.
Primo, che si creino delle bolle dovute al fatto che tutti gli investitori sono spinti ad investire in asset diversi dai titoli di Stato, a basso rischio.
Secondo, che le fasce della popolazione più povere, non avendo risparmi né incentivi ad investire (e a prendere a prestito), non siano assolutamente toccate dal programma.
CONTI IN TASCA