Padre Antonio Vivoda, l’eremita del Monte Faito

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Classe 1908, originario di Veglia, in Istria, l’eremita Padre Antonio Vivoda fu un personaggio straordinario, che tendeva spesso a stupire chi lo osservava. Negli anni ’50 del Novecento il culto per san Michele Arcangelo nel riedificato santuario sul Monte Faito fu incentivato grazie alla sua umile presenza. Intervista allo scrittore David Barra.

Era vero un eremita, con sandali di cuoio e calzini di lana; anche il suo lungo saio era in lana ed il cappuccio bigio. La croce pettorale di legno di ciliegio era infilata al cingolo di corda ritorta a quattro capi e gli girava intorno alla vita. Aveva l’aspetto – come affermò in un suo articolo il giornalista del Mattino, Carlo Di Nannidi un corazziere di Einaudi, ma la lunga barba nera era degna di Assalonne, e i capelli più lunghi cadevano bruni e lucidi sulle forti spalle di questo figliolo dell’Istria, il quale aveva lasciato il bel tempio di Padova, dedicato al santo di cui porta il nome, e il suo ordine religioso dei minori conventuali per passare a quello dei camaldolesi e sconfinare nell’ascetismo puro degli eremitani. In gioventù fu compagno di studi di P. Massimiliano Kolbe, il martire di Auschwitz.

David Barra, scrittore e blogger, nasce in provincia di Napoli nel 1982. Da anni collabora con diverse testate online. Nel 2018, insieme a Nicola Ventura, pubblica Maledetti ’70: Storie dimenticate degli anni di piombo e nel 2021 firma Borghesia violenta, i bravi ragazzi del terrorismo italiano, entrambi per Gog edizioni. Attualmente è co-amministratore del sito web www.spazio70.com e delle piattaforme social collegate al progetto. David ha fornito un contributo eccezionale sulla figura di questo eremita.

David Barra

David, cosa ci racconta di curioso su questa figura?

“Era il 31 dicembre del 1950: un freddo pungente avvolgeva la vigilia del nuovo anno. Il Vesuvio, con il cratere imbiancato, si stagliava maestoso all’orizzonte, mentre un copioso manto di neve ricopriva l’intera catena dei Monti Lattari. Nelle eleganti stanze del Grand Hotel Monte Faito, a oltre mille metri di altitudine, il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi osservava quel paesaggio irreale, lontano dal trambusto delle città sottostanti. Con la consorte e le figlie, il fondatore della Democrazia Cristiana aveva scelto di trascorrere il Capodanno in quella tranquilla località campana. Un ponte radio con Castellammare di Stabia garantiva, comunque, il contatto con Roma, permettendo la gestione degli affari di governo anche da questa oasi remota. La giornata era scandita da un ritmo insolito. Era di domenica, e come di consueto, la famiglia De Gasperi desiderava partecipare alla Santa Messa. Tuttavia, la tempesta di neve infuriava, rendendo impossibile raggiungere il nuovo Santuario di San Michele Arcangelo, recentemente consacrato, ma inaccessibile lungo quelle strade innevate. De Gasperi, uomo di profonda fede, accettò con serenità l’imprevisto, osservando dalla finestra il paesaggio avvolto dal turbinio del vento. In quel momento, però, una figura inaspettata emerse dalla tormenta. Avvolto in un umile saio di lana, un frate dalla lunga barba nera avanzò con passo lento, ma deciso, verso l’ingresso della struttura. Era proprio padre Antonio Vivoda. Il frate attraversò l’anticamera del Grand Hotel per offrire il conforto della fede: la Santa Messa, disse, sarà celebrata all’interno dell’albergo. Per i presenti fu un momento di grande emozione, un’occasione per sentirsi vicini a Dio anche nel cuore della tormenta”.

Cosa rappresentò all’epoca la riedificazione del nuovo santuario sul Monte Faito?

“La benedizione del nuovo tempio, avvenuta il 24 settembre del 1950, colmò un vuoto durato 88 anni, restituendo dignità e luce al Monte Faito, uno dei luoghi più antichi per il culto micaelico. Il nuovo santuario fu ricostruito in un punto diverso rispetto all’originale, in una postazione più comoda e accessibile per i fedeli. In questo processo di rinnovamento, il ruolo di Padre Antonio Vivoda fu cruciale. Fondato nel VI secolo a seguito di una visione mistica avuta dai santi eremiti Antonino di Sorrento e Catello di Castellammare, l’antico tempio di San Michele Arcangelo per secoli aveva vegliato sulla Penisola Sorrentina dalla più alta vetta dei Monti Lattari. Tuttavia, nel corso del tempo, l’edificio subì gravi danni, prevalentemente a causa delle intemperie ma anche per le numerose incursioni. Nel 1862, fu abbandonato definitivamente per via delle continue scorribande di briganti, che lo resero un luogo inaccessibile e pericoloso. L’antica statua di San Michele custodita nel tempio, venerata per i numerosi miracoli a essa attribuiti, fu trasferita nella Concattedrale di Castellammare di Stabia. Del santuario, nel corso dei primi decenni del XX secolo, rimasero solo macerie sparse”.

Come visse padre Antonio quegli anni?

Accanto a quei ruderi, Padre Antonio Vivoda si ritirò per anni in meditazione, vivendo in una capanna costruita con le sue mani, immerso nella solitudine delle montagne. Egli custodì con devozione la memoria del culto, fino al giorno in cui un incontro straordinario cambiò il destino di quel luogo. Il Cavaliere Amilcare Sciarretta, dipendente della Banca d’Italia, incontrò il frate tra quei resti diroccati. Diversi anni addietro, nel corso della Prima Guerra Mondiale, il cav. Sciarretta aveva avuto una visione mistica a seguito dello scoppio di una granata, in una trincea della Venezia Tridentina. Caduto per terra privo di sensi, vide dinnanzi a sé il Golfo di Napoli, mentre un Angelo dalla spada infuocata gli parlava con voce solenne, dicendogli: «Devi ricostruire il mio Tempio!»”.

Cav. Amilcare Sciarretta (foto tratta da Libero ricercatore)

Come si conobbero il cav. Sciarretta e padre Antonio?

Sciarretta, infatti, fu fatto prigioniero dagli austriaci e internato in un campo di concentramento, dove rimase per trentun mesi; cessate le ostilità, nel 1921, come dicevamo, fu assunto dalla Banca d’Italia e nel 1928 fu trasferito a Napoli e, infine, nel 1932, a Castellammare di Stabia. Si trovava bene in quel piccolo centro campano, e sarebbe stato davvero felice se non l’avesse tormentato la nostalgia delle montagne molisane, come ci racconta il redattore Luciano Neri sul settimanale Settimo giorno, nell’edizione del 13 maggio 1954. Sciarretta incominciò dunque, aiutandosi con un bastone, a inerpicarsi sulla mulattiera. Dopo molte ore di cammino, giunto in cima al monte, vide i ruderi di una vecchia chiesa. E, vicino, un monaco che gli si venne incontro dicendogli: Sono padre Vivoda, l’eremita del Faito. Volete riposarvi nella mia capanna? Stanco morto, Sciarretta non rifiutò, beve una tazza di latte seduto accanto a un fuocherello e fece amicizia con l’eremita. Questo mio abito è ad imitazione di quello portato da San Catello, patrono di Castellammare – spiega l’eremita rispondendo ad uno sguardo del suo ospite incuriosito – San Catello fu il costruttore della chiesa della quale avete visto or ora i ruderi. Era dedicata a San Michele Arcangelo. Per poco Sciarretta non svenne. Con voce convulsa chiese che gli si raccontasse la storia della chiesa. Seppe così che durante il VI secolo dopo Cristo, Catello vescovo stabiese, andato sulla vetta del Faito – che allora si chiamava Aureo – ebbe in visione San Michele Arcangelo che gli ordinò di costruire lì, sulle rovine pagane di un tempio dedicato a Ercole, una chiesa in suo onore.

Quale fu la reazione del cav. Sciarretta?

“Ispirato dal racconto di Padre Antonio, Amilcare Sciarretta si fece carico della missione di restituire vita al santuario, diventando una figura chiave nella sua ricostruzione. Con passione e determinazione, organizzò iniziative per raccogliere fondi e materiali, coinvolgendo la comunità in un’impresa dal profondo significato spirituale. Tra le attività più emblematiche vi fu la scalata della pietra: un rito di devozione in cui i pellegrini, spinti dalla fede, trasportavano personalmente i mattoni necessari fino alla sommità del monte. Questo gesto simbolico non solo contribuì materialmente all’opera, ma divenne anche un potente atto di partecipazione collettiva, cementando un legame indissolubile tra la gente e quel luogo sacro.

On. Alcide de Gaspari

L’ on. De Gaspari riuscì, infine, ad entrare nel santuario?

La mattina del 1° gennaio 1951, con la tempesta ormai alle spalle, la famiglia De Gasperi poté finalmente recarsi al rinnovato luogo di culto dedicato a San Michele Arcangelo. L’esperienza, carica di solennità e bellezza, segnò per loro un inizio d’anno all’insegna della fede e della speranza, sotto lo sguardo protettivo dell’Arcangelo, di Padre Antonio e delle cime imbiancate dei Monti Lattari.