Di bolognese ci sarebbero le tagliatelle, ma anche su questo tema c’è parecchio da dire, a partire dal clamoroso errore di uno storico bolognese. Interamente napoletano è il sugo ai “frutti di mare”, che già nel secondo Ottocento decretò il successo di famose taverne e nel ‘900 ha dettato a Domenico Rea una pagina di intenso sapore.
Ingredienti (6 persone): gr.500 di tagliatelle; gr.500 di cozze; 6 “fasulare”; gr.300 di vongole; gr.300 di “taratufoli”; gr.400 di gamberetti; gr.150 di olio extravergine; gr.300 di pomodori di San Marzano; 1 spicchio d’aglio; 1 ciuffo di prezzemolo; sale. In un tegame basso mettete i frutti di mare, dopo averli puliti, lavati e scolati, e fateli aprire: getterete quelli che sono rimasti chiusi. Conservate il sugo di cottura filtrato con un telo di lino. In un altro tegame fate rosolare con olio uno spicchio d’aglio finemente tritato, aggiungete i gamberetti sgusciati, le seppie nettate, i calamari tagliati a cubetti e fate reidratare il tutto; aggiungete poi i pomodori spellati, privati dei semi e tagliati a filettini e fate cuocere per 10-15 minuti. A cottura ultimata unite i frutti di mare e una parte della loro acqua di cottura, cospargete di prezzemolo tritato, aggiustate di sale e versate l’intingolo sulle tagliatelle già cotte in acqua abbondante e misuratamente salata. Mescolate bene e servite con una spolverata di prezzemolo. (Per la ricetta abbiamo seguito quella di Domenico Manzon; l’immagine è stata tratta da “GialloZafferanoBlog”).
Leggo su Internet: “Molto probabilmente, il racconto più famoso sulla nascita delle tagliatelle si deve ad Augusto Majani, umorista e comico originario di un paesino vicino a Bologna, che nel 1931 scrisse una storiella per far sì che il capoluogo emiliano potesse accaparrarsi il titolo di culla delle tagliatelle. La leggenda vuole che alla fine del 13° secolo il signore di Bologna, Giovanni II di Bentivoglio, chiese al proprio cuoco personale Mastro Zefirano di preparare una ricetta originale per la donna di corte Lucrezia Borgia. Quest’ultima si trovava a Bologna di passaggio durante il suo viaggio per convolare a nozze con Alfonso D’Este, duca di Ferrara.” E Mastro Zefirano inventò questo tipo di pasta in omaggio alla chioma della signora, fatta di “strisce” di capelli. Ma il Majani, confuso forse da un piatto abbondante di tagliatelle, presenta come semplice “donna di corte” un personaggio eccezionale del nostro Rinascimento quale fu Lucrezia Borgia e pone l’invenzione del tipo di pasta alla fine del 13° secolo, mentre Lucrezia, figlia di un Pontefice, nacque nel 1480 e morì nel 1519: e nei 39 anni di vita ebbe il tempo di maritarsi tre volte. Nella seconda metà dell’’800 le tagliatelle venivano prodotte certamente dal pastaio Pasquale Cesaro di Torre Annunziata, che le esportava in tutta Italia: tra l’altro, i pastai di Gragnano e di Torre, avendo notato che queste “strisce” erano assai adatte a coniugarsi con il sugo, avevano inventato le “mafaldine”, una versione delle tagliatelle con i bordi arricciati, capaci di trattenere il sugo ancora più intensamente. Famosa per i suoi sughi ai frutti di mare era, nell’Ottocento, la taverna al vico S.Sepolcro a Toledo, che era anche pizzeria e friggitoria, e veniva frequentata, ogni giorno, dai “guappi” e dalle loro “maeste”, attratti non solo dai piaceri della gola, ma anche dai musici e dai cantanti. Nel ‘900 divenne protagonista la cucina dei sughi della “Zi’ Teresa”, il ristorante aperto da Teresa Fusco al Borgo Marinari. Scrisse Domenico Rea che la bontà dei frutti di mare napoletani “ fu una delle ragioni per cui i Romani, che camminavano per il mondo intero, ghiotti di frutti di mare, si trasferirono a Napoli e vi passavano molti mesi dell’anno e di certo la primavera fino all’autunno inoltrato quando ritornavano nella capitale. Questa antica passione fu trasferita in toto ai Napoletani che, sommariamente, si possono considerare i loro successori, almeno per la passione di divorare frutti di mare. Per la seconda volta ho adoperato la voce del verbo “divorare” perché è tanta la voracità dei Napoletani nel mangiarli da non permettere l’uso del verbo “mangiare”. Per la verità, il frutto di mare i napoletani lo succhiano; lo tirano sulla lingua e l’ingoiano. Alla loro bocca basta il sapore, il profumo di mare e di alghe e anche perché il frutto di mare è quasi impossibile masticarlo”. Parole di Domenico Rea.