Le ricette di Biagio: pizzette di zucca. E in zucca fu trasformato l’imperatore Claudio….

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In altri articoli abbiamo già parlato della simbologia della zucca. Probabilmente la zucca fu protagonista della satira menippea con la quale Seneca demolì, post mortem, l’imperatore Claudio che aveva osato mandarlo in esilio in Sardegna. Al di là dei problemi legati al titolo effettivo e al testo, l’ “Apokolokyntosis” è un capolavoro e ci induce a perdonare la doppiezza dell’autore che aveva elogiato l’imperatore, quando era vivo, con squillanti parole.

 

Ingredienti: 1kg zucca; 1kg di mozzarella; 200gr. di passata di pomodoro; 30 gr. di parmigiano; origano secco; olio extravergine di oliva; sale; pepe. Accendete il forno a 180°, tagliate con cura la zucca, senza sbucciarla, in una quindicina di fette. Collocate le fette di zucca sopra una teglia rivestita con carta da forno e infornate finché la polpa della zucca si sarà ammorbidita. Intanto tagliate la mozzarella a dadini e fatela “asciugare”; preparate anche il resto del condimento: versate la passata in una ciotola e conditela con 1/2 cucchiaino di sale. Unite un cucchiaino abbondante di origano e mescolate. Togliete la teglia con i dischi di zucca dal forno e iniziate a distribuire su ognuno un cucchiaio di condimento al pomodoro. Adagiate tre dadini di mozzarella sopra ogni fetta. Infornate finché i formaggi non si sciolgono; lasciate intiepidire e servite. (Ricetta e immagini dal sito GialloZafferanoBlog).

 

                                                                            gallus in suo sterquilinio plurimum potest-

                                                                           (un gallo è sovrano nel suo immondezzaio).

 

Dopo aver cantato le lodi dell’imperatore Claudio nella “Consolatio ad Polybium”, Seneca, che da Claudio era stato mandato in esilio in Sardegna, espresse tutto il suo odio verso di lui quando l’imperatore morì, nell’ottobre del 54 d.C. Mentre agli imperatori precedenti era stata decretata l’ “apoteosi”, la divinizzazione, Seneca raccontò, nell’ “Apokolokyntosis”, una terribile satira menippea, che a Claudio era stata riservata, dagli dei degli Inferi, la “trasformazione in zucca”. Quasi tutti i critici oggi riconoscono che la satira è opera di Seneca, e molti critici accettano il titolo “Apokolokyntosis”, che fu adottato per la prima volta da uno studioso olandese a metà del ‘500. Non mi interessa pubblicare il lungo elenco dei significati attribuiti a questa parola greca coniata dall’autore: accetto l’interpretazione sempre più diffusa; “l’inzuccamento”. Nel testo tramandato dai manoscritti non c’è questa trasformazione in zucca, ma non si può escludere che venisse descritta nell’ultima parte della satira, che non ci è stata trasmessa: ma kolokunte indica la zucca nota agli antichi, e la stoltezza di Claudio è tema centrale della satira: la zucca anche per gli antichi era simbolo del vuoto, della stupidità. E infatti Seneca racconta che quando Claudio morto arriva nel mondo degli dei per chiedere “l’apoteosi”, “viene annunciato a Giove che è arrivato un tale di buona statura, canuto assai”: un tale che scuote continuamente la testa in modo minaccioso, trascina il piede destro, e quando gli hanno domandato di che paese fosse, ha risposto “con suoni agitatissimi e con voce confusa, e non è sembrato “né greco, né romano, e di nessun popolo conosciuto”. Giove chiede aiuto a Ercole che, avendo molto viaggiato, conosce tutti i popoli e tutte le lingue: ma anche lui non comprende nulla di ciò che dice l’ospite. A un certo punto Ercole pensa che sia un “mostro marino, una marina belua”, venuto a sfidarlo nella “tredicesima fatica”, ma osservandolo più attentamente, capisce almeno che più o meno è un uomo “quasi homo”. Ma la satira diventa devastante quando Seneca descrive gli ultimi momenti di Claudio, che aveva problemi gastrici e che forse morì avvelenato (ma questo Seneca non lo dice). Comunque fu un’agonia faticosa: “Claudio cominciò a spingere fuori l’anima, ma non poteva trovare l’uscita”. Allora Mercurio chiede alla Parca Cloto di risolvere il problema, e così l’imperatore “animam ebulliit, emise l’anima in un bollore”, dopo aver emesso un forte rumore “da quella parte del corpo con la quale si esprimeva più facilmente”. Le sue ultime parole furono: “Vae me, puto, concacavi me, povero me, mi sono smerdato, credo”, e Seneca commenta: “Non so se l’abbia fatto: certo, non c’è cosa che egli non abbia smerdato”.

(fonte foto: giallo zafferano blog)