Nel 1646 viene pubblicato un canzoniere dialettale burlesco, “La tiorba a taccone de Filippo Sgruttendio de Scafato”. “Filippo Sgruttendio” è certamente uno pseudonimo, usato, secondo alcuni studiosi, da Giuseppe Storace d’ Afflitto. Giuseppe Marotta è uno dei più grandi scrittori del nostro Novecento: nel 1947 pubblicò un capolavoro, “L’oro di Napoli”. Il quadro di corredo è “Pranzo frugale” di R. Hartwell: pare una scena napoletana.
Nei primi decenni del Seicento i “maccaruni” incominciano a comparire sulla tavola dei Napoletani, anche se non sono ancora il “piatto” fondamentale e simbolico che sarebbero diventati un secolo dopo. Ma si stava ormai avviando la “conversione” dei Napoletani da “mangiafoglie” a “mangiamaccheroni”. Lo Sgruttendio ricorda “chille belle piattune/ …de lasagne e maccarune”, e nella “Lucilla costante” del Fiorillo, pubblicata a Milano nel 1632, la maschera di Pulcinella è associata ai maccheroni: “ me ne vorria tornare a la casa de la segnora Lucilla a magnarme lo riesto de cierte maccarune, che aggio lassato”. Al capitano Matamoros Pulcinella grida, in preda alla furia della gelosia: “Ah, spagnuolo, nemico delli maccarune!”: e l’espressione, scrive il Sereni, “sembra già usata proprio nel senso di “nemico dei Napoletani””. Lo Sgruttendio, che pure ha cantato il valore prezioso della “foglia”, scrive “Le laude de li Maccarune”, e, se è vero che Narciso è stato trasformato in un fiore, egli chiede al “gran Giove” di diventare “Maccarone”.E Napoli nel 1633 esporta 150 quintali di paste alimentari: il documento venne pubblicato nel 1955 dal Coniglio, in un testo importante “Il Viceregno di Napoli nel sec.XVII. E’ probabile che la trasformazione sia stata favorita dalla crisi economica e dall’ implacabile durezza del dominio spagnolo, che costrinsero i Napoletani a ridurre il consumo della carne, tradizionalmente associata alla “foglia”. Nel “Tasso napoletano”, che è del 1689, il Fassano scrive che gli abitanti di Partenope “s’abbottano de vino e maccarune”, e nella “Nuova canzonetta in diversi linguaggi”, pubblicata a Venezia negli ultimi anni del sec. XVII, una rissa tra soldati francesi, genovesi e piemontesi viene sedata da un Napoletano che non si limita a mulinare la sua scimitarra, ma invita i “bricconi” “a mangiar li maccaroni”. Nel poemetto “Della discendenza e nobiltà de’ maccaroni”, che il conte Francesco de Lemene di Lodi pubblica nel 1654, due città, Bergamo e Napoli, si contendono l’onore di aver dato i natali a Maccarone, protagonista dell’opera, “facendo gran contesa e gran fracasso / più per i Maccaron che per lo Tasso”. Dunque, a metà del secolo, tutta l’Italia sa che come capitale dei maccheroni Napoli ha sostituito la Sicilia, la Sardegna e la stessa Genova, che pure continua ad esportare paste: il contrasto con Bergamo è solo apparente, perché – è una riflessione del Sereni – la città lombarda sarebbe la capitale, per la Lombardia e per il Veneto, non dei maccheroni “napoletani”, ma di quelli antichi, e cioè gli gnocchi. Nei secoli successivi – nel ‘900 grazie anche al cinema – dire “maccheroni” significa dire “Napoli”. E perciò Giuseppe Marotta si sentì in diritto di scrivere. “Chi entra in Paradiso da una porta non è nato a Napoli, noi il nostro ingresso nel palazzo dei palazzi lo facciamo scostando delicatamente una tendina di spaghetti. Fummo allattati in fretta, mentre cuocevano gli spaghetti; subito le nostre mamme ci staccavano dal seno e ci mettevano in bocca un frammento di spaghetto; prima lo avevano deterso, con le loro labbra, dal ragù…Io pure, cosa lascio ai miei figli, se non gli spaghetti che ereditai?”. Ma quali spaghetti lascia ai suoi figli Marotta? Non quelli alla genovese, o alle vongole, “o addirittura impallinati di salsiccia, o bluastri di olive di Gaeta e argentei di alici salate, o screziati di indissolubile mozzarella o (per amor del cielo!) al gratin? Gli spaghetti che vi lascio sono fulminei e prudenti, spicci e al tempo stesso riflessivi, una improvvisazione e una massima: sono il cibo ideale per chi ha sfacchinato dalla mattina alla sera e non ne può più: sono gli spaghetti all’aglio e all’olio.”. Se Leopardi avesse mangiato spaghetti “ aglio e uoglio” dopo aver “sfacchinato” per una intera giornata, avrebbe scritto una filosofia dei maccheroni, opposta in ogni punto a quella che ha scritto.