Ieri il tribunale di Nola ha respinto il ricorso per il reintegro dei cinque operai estromessi nel 2014, dopo le proteste contro i suicidi dei cassintegrati.
La vicenda degli operai delle fabbriche Fiat di Pomigliano e di Nola licenziati per aver impiccato il fantoccio di Marchionne: il tribunale ha dato ragione all’azienda. Con una sentenza emanata ieri il giudice del lavoro di Nola, Francesca D’Antonio, ha infatti respinto il ricorso finalizzato al reintegro negli organici di cinque attivisti del Comitato di lotta Fiat. Nelle motivazioni il magistrato spiega sostanzialmente che “si tratta di licenziamenti giustificati perché la condotta dei ricorrenti ha leso l’immagine dell’azienda e fatto venire meno il rapporto fiduciario”. I fatti risalgono a un anno fa esatto, al 4 giugno 2014, quando gli operai Mimmo Mignano, Marco Cusano, Antonio Montella, Massimo Napolitano e Roberto Fabbricatore (il primo già licenziato per altri fatti dalla Fiat di Pomigliano e gli altri quattro, in quel momento, cassintegrati del reparto logistico di Nola) impiccano a un patibolo installato davanti alla Fiat di Nola un fantoccio raffigurante il volto dell’amministratore delegato della FCA, Sergio Marchionne. Una forma di protesta molto forte e provocatoria messa in atto per manifestare contro i due suicidi dei cassintegrati dell’impianto nolano Pino De Crescenzo, morto nel febbraio dell’anno scorso, e Maria Baratto, che si è tolta la vita tre mesi dopo, il 22 maggio. E successivamente al sit in del patibolo i cinque attivisti del Comitato di lotta Fiat sono licenziati dall’azienda. Licenziati che quindi presentano subito il ricorso in tribunale per essere reintegrati nel posto di lavoro. Dopo un anno però, cioè ieri, la magistratura civile boccia il ricorso. “E’ stata lesa l’immagine della società e del suo amministratore delegato nei confronti dei dipendenti”, spiega il giudice D’Antonio. Estromissione dei lavoratori “ giustificata perchè è stata accertata e dichiarata la sussistenza della giusta causa e la conseguente legittimità del licenziamento disciplinare irrogato e perché le condotte poste in essere dai ricorrenti sono lesive degli interessi morali della società provocando alla stessa un grave nocumento morale idoneo a ledere in modo irreversibile il vincolo fiduciario tra le parti del rapporto di lavoro”. I fatti, alcuni contestati e altri no, di cui sono stati protagonisti i militanti Cobas fanno emergere una dinamica complessa. Gli episodi di quelle tese giornate della primavera dello scorso anno sono infatti diversi. Dopo il suicidio di Maria Baratto Mimmo Mignano e i suoi compagni di lotta inscenano, il 27 maggio 2014, il primo di una serie di atti dimostrativi. Davanti al reparto logistico cospargono di vernice rossa le tute da lavoro e si stendono davanti allo stabilimento nolano fingendosi cadaveri. Quindi, il 4 giugno, gli operai tornano, montano un patibolo nel piazzale dell’impianto e impiccano al cappio il fantoccio di Marchionne. Al manichino appendono un cartello, sorta di “testamento” del manager con la scritta “perdonatemi per i morti che ho provocato”. Nel pomeriggio la stessa azione viene ripetuta davanti alla sede Rai di Napoli. Poi, martedì 10 giugno, terza dimostrazione: i militanti del Comitato mimano, stavolta davanti ai cancelli della Fiat di Pomigliano, il “funerale” di Marchionne, con tanto i bara-baule, solito fantoccio e lumini accesi.“ Atti – sostiene la Fiat nelle contestazioni – che oltre a integrare un intollerabile incitamento alla violenza costituiscono palese violazione del rapporto di lavoro ”. Infine, la bocciatura della richiesta di reintegro. Ieri pomeriggio i Cobas hanno diramato un comunicato: “Lo Stato di diritto non c’è più: licenziano i sindacalisti Cobas e ci tappano pure la bocca. Ma non ci fermeremo”.