Tra due persone (o due gruppi) si accende uno scontro a base di insulti e di accuse. A un certo punto uno dei due contendenti volge le spalle all’avversario e si ritira dalla mischia. L’avversario si calma e, sicuro della vittoria, abbassa la guardia: e proprio in quell’attimo l’altro si gira e scaglia contro di lui l’ultimo insulto, l’allusione maligna, l’offesa violenta, e lo lascia senza parole. E’ la freccia del Parto. Gli arcieri Parti, la battaglia di Carre, la tragica morte del triumviro Marco Licinio Crasso e di suo figlio.
La tribù iranica dei Parti, guidata dalla dinastia degli Arsacidi, dal 250 a.C. al 230 d. C. resse un impero che comprendeva gran parte dell’Iran, la Media e la Babilonia, e costituì un argine insuperabile per l’espansione dell’ impero Romano. Non fu facile per i generali di Roma costruire un sistema di tecniche e di tattiche che consentisse di scompaginare gli squadroni di cavalleria pesante e leggera degli iranici. I “catafratti”, cavalieri “pesanti”, erano corazzati dall’elmo del guerriero fino al ventre del cavallo e conducevano l’attacco risolutivo contro la fanteria romana: sui loro scudi si accartocciavano le punte dei giavellotti scagliati dai legionari, che non erano in grado di resistere all’urto di quella massa di muscoli e di metallo. I cavalleggeri montavano cavalli addestrati a lasciarsi guidare dai colpi di tallone, e dunque i cavalieri, avendo le mani libere, scagliavano frecce anche girandosi all’indietro, contro i nemici che commettevano l’errore di inseguirli, credendo che essi si fossero dati alla fuga: era una finta fuga, era il cardine della loro tattica. I nemici venivano decimati dalle frecce di un nemico che fuggiva: da qui nacque il gioco metaforico della “freccia del Parto”, il colpo che non ti aspetti, il colpo che ti coglie di sorpresa, tirato da un avversario che sta fuggendo. L’arco dei Parti era uno strumento micidiale, composto da due pezzi, tenuti insieme in un cilindro di stoffa e di cuoio. Questa struttura permetteva all’arciere di esercitare una tensione di gran lunga superiore a quella consentita dall’arco “occidentale”, e dunque di scagliare frecce che conservavano per una distanza doppia rispetto agli altri archi la forza di penetrazione “mortale”. Su questo modello di arco Gengis Khan costruì il suo immenso impero, e Napoleone Bonaparte fece venire dalle steppe dell’Asia degli arcieri tartari per avere la prova che era vero ciò che aveva letto nei libri. Quando i tre triumviri, Cesare, Pompeo e Crasso si scelsero i “campi di azione”, Crasso volle l’ Asia Minore, sollecitato – dissero subito i maligni, a partire da Cicerone – dalle favolose ricchezze della Siria, della Palestina, dell’impero dei Parti. Pompeo e Cesare forse l’avvertirono che con i Parti non si scherzava: o forse tacquero, come ha scritto qualcuno, prevedendo che Crasso avrebbe attaccato quel nemico intrattabile, e ne sarebbe stato eliminato. Talvolta i nemici sono utili, e nessuno lo sa meglio di noi, noi Italiani, noi Europei. Il 9 giugno del 53 a.C. Marco Licinio Crasso venne sconfitto a Carre. Gli dei avevano cercato di dissuaderlo dall’ingaggiare battaglia, inviandogli una serie di segni nefasti: fulmini, tuoni, i servi addetti alla cucina che distribuiscono ai soldati “innanzi tutto lenticchie e focaccia d’orzo, che i Romani considerano cibo dei banchetti funebri e offrono ai morti” (Plutarco, Crasso, 19, 6). Infine, mentre stava celebrando il sacrificio in onore del dio del fiume Eufrate, che i Romani avevano attraversato, Crasso si fece cadere dalle mani le viscere della vittima e, notando che i presenti erano terrorizzati, diede la colpa alla vecchiaia, ma garantì che nessuna arma gli sarebbe sfuggita di mano. Insomma quel giorno maledetto il triumviro gareggiò con la cattiva sorte nel produrre segni nefasti: e vinse la gara, poiché, quando uscì dalla tenda per avviarsi al campo di battaglia, indossava non il tradizionale mantello di porpora, ma un mantello nero. Prima di essere ucciso, toccò al triumviro di vedere la testa del figlio Publio conficcata su una lancia che un Parto agitava sotto gli occhi dei soldati Romani gridando che non era possibile che da un uomo così spregevole come Crasso fosse nato un figlio tanto valoroso. Surena, il generale vincitore, inviò al re Orode la testa e la mano del triumviro. Secondo Plutarco, quella testa tronca venne usata dall’attore Giasone di Tralles come arredo di scena: egli la prese tra le mani mentre recitava alcuni versi delle “Baccanti” di Euripide durante il banchetto in cui Orode e Artavasde, re dell’Armenia, festeggiavano la loro riconciliazione. Si narra anche che Orode abbia fatto versare oro fuso nella bocca della testa tronca di Crasso.