A Napoli essere tifosi vuol dire riscatto sociale e altro ancora. Di seguito la prima di due tappe che analizzeranno sociologicamente il calcio e i napoletani insieme con lo storico Angelo Frungillo.
Essere napoletani significa tante cose, vuol dire anche essere tifosi del Napoli. L’analisi approfondita in questa prima tappa tenterà di osservare quest’argomento anche con l’aiuto di Angelo Frungillo, storico appassionato del calcio, o meglio della squadra del Napoli. Abbiamo chiesto al Sig. Frungillo quanto ha influito il calcio nella storia e nella cultura del nostro territorio, per avere un’idea più chiara di quanto sia influente sulla società locale il tifo calcistico:
«Il calcio a Napoli vede la luce all’inizio del secolo scorso portato in città dai marinai e da impiegati inglesi negli uffici dei legati commerciali britannici, i primi a sgambettare a via Campegna furono i figli della buona borghesia napoletana e gli inglesi residenti in città, il popolo, quello che sarebbe diventato il popolo azzurro, ne era distante, e qualcuno non poteva esimersi da qualche sberleffo e qualche ingiuria verso quei giovanotti coi baffi a manubrio e con i mutandoni al ginocchio che correvano inseguendo una palla di cuoio. Ma già negli anni venti il pallone era diventato una cosa seria, il primo agosto del 1926 Giorgio Ascarelli, facoltoso commerciante di origine ebraica, riunì le varie squadre di Napoli sotto un’unica bandiera, e senza badare a nomi esterofili chiamò il nuovo club: Napoli».
«Egli era convinto che la città aveva bisogno di una sola squadra, di un solo amore, e per amore costruì lo stadio per la sua creatura al rione Luzzatti, e lo chiamò stadio del Sole, alla sua morte si chiamerà Ascarelli, e fu distrutto dalle bombe,durante l’ultimo conflitto. Ormai negli anni trenta il calcio era divenuto fenomeno di massa, ed aveva i suoi miti, a Milano, Peppino Meazza, detto il Balilla, in omaggio al regime, a Napoli Attila Sallustro, di origini paraguayane, ma napoletano a tutti gli effetti, restato tutta la vita nel calcio Napoli,diventò in seguito direttore dello stadio S.Paolo».
Pian piano il Napoli è diventato una realtà talmente predominante che l’individuo ha perso la propria identità per far parte di un unico agente sociale che è il gruppo della tifoseria, all’interno del quale la responsabilità dell’individuo si dissolve. Una perdita d’individualità che in questo caso agisce da fattore protettivo contro i disagi personali relativi all’appartenenza di contesti disagiati, in un territorio ostile che costringe il napoletano ad “arrangiarsi” e ad agire ripetutamente con atteggiamenti di difesa ai limiti della sopravvivenza.
Il concetto populistico “il Napoli non mi fa pensare ai guai” non è poi così scontato, piuttosto in questa zona si ingigantisce al tal punto tale valore da diventare un enorme fenomeno che negli anni è entrato a far parte della coscienza di ognuno, un modello operativo con cui si concretizzano nuovi riti e nuove idee: se in qualsiasi altra città essere fan di una squadra si limita all’interesse e alla passione per il calcio, a Napoli invece, si traduce in un credo quasi religioso con palazzi imbrattati di azzurro, con festoni ovunque , con adorazioni dei migliori giocatori, con il mito indiscusso di Maradona, con un enorme mercato di gadget , con un fanatismo esplosivo che sfocia nella venerazione sacra. Da questa rete antropologica si producono anche codici comunicativi specifici, terminologie ad hoc, veri e propri linguaggi che esorcizzano le ansie e si sostituiscono alle preoccupazioni generiche dei napoletani.
Durante il confronto con Angelo Frungillo è stato poi messo in luce il suo punto di vista da storico del calcio Napoli: «Ma cosa c’è nella testa di un tifoso? Per capirlo dobbiamo seguirlo da bambino, lo chiameremo Antonio. É nato nel 1960, a quattro anni, la domenica pomeriggio si aggira per casa, tutti dormono , solo il nonno è sveglio, ha l’orecchio incollato alla radio, il piccolo Antonio prova a giocare col nonno, ma niente da fare, il nonno impreca soltanto, poi improvvisamente salta, si mette a ballare, il piccolo Antonio vorrebbe chiamare il papà, ma il papà è allo stadio, il nonno lo abbraccia e lo fa volare in celo: ha signat’o Napule… urla il nonno, la mamma dorme, il papà fra un po’ tornerà. Così per tutte le domeniche di quell’inverno del 1964. L’anno dopo, il papà prende la storica decisione: quest’anno allo stadio ci viene anche Antonio. Antonio crescerà nell’illusione, nella speranza e nella delusione, attenderà le stagioni che passano, costruirà la sua vita parallela a quella del calcio Napoli, avrà un figlio nel 1986, e lo chiamerà Diego, per speranza, dirà».
«E la speranza si avvererà, non c’è più il nonno con l’orecchio alla radio, c’è il papà, ora, la domenica con l’orecchio alla radio. Ed il piccolo, ora diventato grande Antonio, ha vinto la sua guerra, insieme al suo eroe, il Napoli ha vinto il campionato, per la prima volta. Quel giorno Antonio lo ricorderà più di tutti gli altri giorni della sua vita, più del giorno del suo matrimonio, più del giorno che è morto il nonno, più del giorno che si è laureato. Antonio insieme a tanti altri Antonio, ha vinto, la somma di ogni Antonio ed Antonietta è stata la vittoria della città, ognuno ha vinto per qualcosa, chi per il nonno che non c’è più, chi per il papà, chi per il caporeparto di quando stavo a Milano e mi sfotteva sempre, chi per ridere soltanto, chi per piangere soltanto, chi per far vedere agli altri che ci siamo anche noi».
«In realtà il calcio a Napoli secondo me è la voglia di un popolo di dimostrare al mondo di esistere, una città antichissima, mai stata a capo di un impero, mai in guerra per conquistare altri popoli ed altri stati, mai carogna, solo indolente, poco propensa a rispettare le regole, ma se le regole le detta qualcuno che ama, pronta a seguirle fino alla fine». (1. Continua)
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