“Malacqua”, il capolavoro di Nicola Pugliese che nel 1977 descrisse l’Italia di Renzi

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Il sottotitolo del romanzo è: “quattro giorni di pioggia nella città di Napoli in attesa che si verifichi un accadimento straordinario”. Ma non accade nulla. Forse qualcosa accadrà domani. Napoli è, ancora una volta, metafora dell’Italia.

Nicola Pugliese non volle che dopo la prima edizione il suo romanzo, pubblicato da Einaudi nel 1977, venisse ristampato: secondo Roberto Saviano, la decisione gli fu dettata dalla “timidezza”, dal “pudore”, dalla “malinconia”. A me piace immaginare che Pugliese sia stato turbato dall’amara verità che le sue parole avevano creato, svelandogli il senso della sua vita: perché gli uomini comuni usano le parole per comunicare, per tentare di comunicare, mentre gli “illuminati” se ne servono per esistere. E Nicola Pugliese fu un “illuminato”: perciò fu autore di un solo romanzo: la “profezia” si può scrivere una sola volta. ( Il capolavoro è stato ristampato da Tullio Pironti l’anno scorso: Pugliese morì ad Avella nel 2012).

Non ho letto, su Napoli, niente che possa stare alla pari di questo romanzo: gli si avvicinano alcune pagine del “Mare non bagna Napoli”, quelle in cui la Ortese decide di andare oltre la durezza scontrosa della cronaca, di addolcire i colori acidi della sua tavolozza. “Malacqua” è la storia favolosa di Napoli, la città del sole, che per quattro giorni sta sotto la pioggia, una pioggia continua, costante, un crepitare fitto e uniforme, senza scrosci, senza grandine, fotografata splendidamente dalla prosa di Pugliese, che ha la forma e il suono dei rivoli che corrono lungo le strade e ora si incurvano per scansare gli ostacoli, ora confluiscono in una sola ampia, inarrestabile lava.

Il lessico colora di grigio la “malacqua”, distende sulla città un colore cangiante: “diveniva angoscia anche l’attesa delle luci che non si aprivano”. Il rumore di questa pioggia “ era tenero, dolcemente malinconico”, “era una carezza quest’acqua che scendeva a opacizzare i sentimenti.”. E tuttavia questa pioggia carezzevole apre voragini (anche allora), ci sono vittime, e si tiene una seduta del consiglio comunale, in cui l’Opposizione potrebbe travolgere la Maggioranza, ma il sindaco manda dal capo degli avversari Antonino Sale, “un abile maneggione”: alla fine del colloquio gli Oppositori annacquano la protesta e chiedono solo, e ottengono, che venga istituita una commissione d’inchiesta. Si sapeva già che fine fanno queste commissioni.

Geniale è la descrizione dell’ attesa: una pioggia così è per forza l’annuncio di un “accadimento straordinario” che si manifesterà da un momento all’altro. Ne sono persuasi tutti, le autorità, i cittadini. Nell’attesa il tempo rallenta, si apre, così come l’acqua apre le strade: si scompagina il disegno dell’ovvio, le cose banali si deformano in figure grottesche. E capita, nei vuoti di questo tempo dilatato, che la vocina di una bambola abbandonata nella Sala dei Baroni diventi “un urlo tremendo, una Grande Voce onnipotente” che scuote tutta la città; capita che il mare salga fino a Piazza Plebiscito a cercare i ragazzi a cui era stato impedito di scendere in spiaggia, e che alcune monete da cinque lire si mettano a suonare canzoni, e che si inneschi immediatamente il contrabbando di monete da cinque lire.

Ma nessuno di questi eventi può essere l’”accadimento straordinario”. Nel quarto giorno di pioggia il giornalista Carlo Andreoli, mentre si sbarba, riflette, cerca di capire. Ha notato che Napoli non reagisce alla pioggia, sospetta che la città “voglia cambiare il suo destino di sole in un nuovo e diverso destino di pioggia”: va bene, lui non si ribellerà, “perché nella vita si accetta tutto, inevitabilmente, e insomma nella vita la vita si subisce”, ma le pietre di Napoli si adatteranno a questo nuovo destino, resisteranno a tanta umidità? Non accettare il mutamento, e fuggire? E dove ? Fuggire in città ignote, per scoprire che sono tutte uguali ? E poi, dice Carlo Andreoli a sé stesso, non bisogna dimenticare che Napoli ha vissuto giorni anche peggiori di questo. E’ la consolazione finale, è il filo rosso che attraversa tutta la storia della città, non c’è amministratore di Napoli che non abbia tentato di salvarsi l’anima con queste parole.

Ma quando “terminò di radersi sul collo dalla parte sinistra”, Carlo Andreoli ebbe la “folgorazione”. Capì che non era successo niente, che non sarebbe successo niente, che al quinto giorno sarebbe tornato il sole, a illuminare la “città dolente”, in cui “ i giorni avrebbero tirato diritto come in passato per la strada impietosa”. Come prima. Non ci sarebbe stato “l’accadimento straordinario” che per quattro giorni tutti i cittadini avevano atteso.

Leggo che il ministro Padoan ha scoperto che nel 2014 la crescita dell’Italia sarà inferiore, e di molto, allo 0,8%, e che qualcosa incomincerà a muoversi nel 2015, anzi nel 2016: leggo, e cerco di ricordare per quale anno Monti, e la Fornero, e Letta Nipote avevano previsto “l’accadimento straordinario”, prima di scoprire, anche loro, che nulla di nuovo accadeva, e nulla sarebbe accaduto. Leggo e penso al romanzo di Nicola Pugliese, così profondamente napoletano proprio nel suo apparire diverso dall’idea corrente della napoletanità.
Quando mi sento avvelenato dalle chiacchiere che ci piovono addosso da ogni lato, leggo una pagina di questo romanzo, una qualsiasi, presa a caso, a apertura di libro: è un antidoto straordinario. Dopo, sarei in grado di resistere a una comizio congiunto di Renzi, di Tavecchio e di Gasparri.