Le ricette di Biagio. Fettuccine ” ‘nziriose”: alla carbonara, con carciofi alla julienne

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Il sapore bizzoso,”‘nziriuso”, del carciofo domato dal fuoco e dalle uova. La frittura dei “carducci” e l'”imbrogliata” di uova e carciofi. I simboli complicati dell’ortaggio e la canzone “Carcioffolà”, uno “scherzo” geniale di Di Giacomo e Di Capua.

Ingredienti: 500 gr. di fettuccine, 200 gr. di carciofi,150 gr. di guanciale, olio ,4 tuorli di uova, pecorino, pepe q.b.
Pulite i carciofi e tagliateli alla julienne, fate lo stesso con il guanciale e mettete il tutto in un tegame con un pochissimo olio, fate soffriggere per circa 10 minuti : intanto sbattete in una ciotola le uova aggiungendo sale pepe e pecorino, scolate la pasta al dente, fate amalgamare, cospargete il tutto con uno spruzzo di pecorino e di pepe, e servite.
Biagio Ferrara

La struttura del carciofo è quella di un tesoro difeso, protetto, nascosto da un vallo di robuste barriere sormontate da spine. Quando Cynara, la ninfa bellissima, gli disse di no, Zeus la trasformò proprio in carciofo: avrebbe voluto farne un globo di foglie dure e spinose, ma all’ ultimo istante si ammorbidì, e diede all’ortaggio un cuore tenero. Nei secoli anche le foglie esterne sono diventate meno dure: i nostri carciofi sono assai diversi da quelli che mangiavano gli antichi. Restano le spine, e restano i “carducci”: con questo nome i Toscani chiamano i germogli in eccesso, che vanno eliminati con una operazione che si chiama “scarducciatura”.

Me ne parlarono per la prima volta gli amici grossetani, molti anni fa, quando mi invitarono alla sagra del carciofo di Chiusure, che è un borgo del Senese: vi si conservano i resti di un castello che già allora un sapiente calendario di manifestazioni aveva trasformato in una meta turistica. Quella sera mangiai “carducci” fritti, accompagnati da un nobile Pitigliano bianco. E mi sento obbligato a ricordare che il carciofo arrivò sulle mense dei nobili francesi grazie a Caterina de’ Medici, zia di quella Giulia che con il marito Bernardetto comprò il feudo di Ottajano nel 1567.

Il sapore del carciofo è bizzoso, capriccioso, a Napoli diciamo “‘nziriuso”. Questa ” ‘nziria” va domata o con il fuoco – il carciofo arrostito – o con l’uovo, come nel piatto di Biagio, e nell’ “imbrogliata” preparata secondo la ricetta di Alessandro Molinari Pradelli: pulire i carciofi, liberarli dalle foglie esterne e dalle punte, tagliarli in spicchi sottili, bagnarli con acqua in cui è stato versato succo di limone, e poi rosolarli in una padella. Sbattere in una ciotola grande le uova, il latte, il parmigiano reggiano grattugiato, aggiungere sale e pepe, “saltare” i carciofi nella padella di prima, aggiungere le uova, “imbrogliare” il tutto in un composto che resti morbido.

Con i carciofi, dunque, bisogna usare la forza, perchè hanno forza: purgano e depurano, sono un balsamo per il fegato – il cynar della famosa pubblicità – e secondo alcuni competenti, anche di altri organi e strumenti del corpo umano. C’è chi crede perfino che il carciofo non faccia cadere i capelli. La ” ‘nziria” è anche volubilità. In italiano, il nome è maschile, e “carciofo” è metafora dell’organo sessuale dei maschi, ma può anche indicare, per estensione analogica, un uomo lento, moscio, stupido. Questa estensione il dialetto napoletano la conserva nel maschile “carciuoffolo”, “si’ ‘nu carciuoffolo, non capisci niente”, mentre il femminile “carcioffola” indica l’ortaggio, ma anche l’organo sessuale femminile.

I venditori di “carcioffole arrustute” sono figure ormai perfettamente inserite nel panorama del nostro territorio: montano “furnacelle”, graticole e banchi lungo la strada, in punti strategici, lavorano in silenzio, sazi di fumo e dell’ odore molle e denso che viene su dalle braci.
Nel 1893 Eduardo Di Capua musicò uno “scherzo” di Di Giacomo, “Carcioffolà”. Una madre, saggia e preoccupata, propone a sua figlia, che si vuole sposare al più presto, dei possibili mariti. Ma lei li scarta tutti, come se fossero le foglie dure del carciofo. Scarta anche il pompiere, e fa bene: “si voglio ‘o vrasiere/ na vota appiccià, / m’ ‘o stuta ‘o pumpiere”: se voglio accendere il fuoco nel braciere, il pompiere me lo spegne subito.

Con l’acqua. La ragazza scarta perfino il campanaro, e non ha torto: è un tipo che si alza presto, all’alba, per andare a suonare le campane: e lascia la sposa, sola, nel freddo letto. Alla fine si svela il cuore tenero della giovane: ella dice a mammà che ha conosciuto un ragazzo, “nu ninno”, e che questo “ninno” le ha domandato se è “zita”, se è libera per il matrimonio. Questo “ninno” lo prenderebbe volentieri, come marito.
Le fettuccine di Biagio hanno preso volentieri come compagno un fiano avellinese in cui c’era equilibrio tra morbidezza e freschezza.

(Foto: G. Arcimboldo, ritratto di Rodolfo II visto come il dio Vertumnus)

L’OFFICINA DEI SENSI