Per una filosofia dei maccheroni. Prima parte: la rivolta dei vermicelli. Di Carmine CimminoSi ribellavano a qualcosa. Fu subito chiaro che era in atto una protesta. I maccheroni, i doppi e i fini, ziti, candele, linguine, spaghetti e vermicelli, tutti nati dal grano più prezioso, tutti fabbricati dalle ditte più antiche e più gloriose, tutti cotti al dente, in un modo e in una misura che anche i denti più sensibili e severi avrebbero giudicato perfettamente consoni alla musica dei tempi di cottura: tutti, insomma, proprio tutti, giacevano sul fondo della zuppiera. Sfatti. Prima si sfilacciavano come gomma da masticare e poi si incollavano l’uno all’altro fino a squagliarsi in disgustosi grumi bianchicci.
Qualcuno notò che lo snervamento e l’ammosciamento iniziavano al primo contatto con la salsa, come se i maccheroni tentassero di dire che non volevano essere né sommersi né macchiati e nemmeno colorati dalla rossa poltiglia. Ci furono scene di panico: anche gli ottimisti di professione considerarono imminente la catastrofe della cucina napoletana, se i maccheroni avessero deciso di rompere, dopo due secoli di fedeltà, un matrimonio che sembrava felice. Qualcuno arrivò a pensare che dietro ci fosse il nero disegno dei nordisti di conquistare l’ultimo baluardo del Sud sommergendo il rosso dei San Marzano nel verde del pesto, e cacciando via dalle pentole il ragù di Eduardo per riempirle con il tritume della bolognese. Ma, per fortuna, il timore si dissolse subito.
I maccheroni si ribellavano non ai pomodori in quanto pomodori, ma ai pomodori cinesi, che, chiusi in bottiglie e barattoli, interi e passati, liquefatti o a pezzettoni, avevano preso possesso degli scaffali in un gran numero di supermercati campani.
Pomodori cinesi. Non è stata una protesta razzista. La storia dei maccheroni è un impasto di umiltà e di generosità e di spiriti democratici. Vanno d’accordo con tutti, perfino con i pomodori padani. Ma non sopportano le controfigure, i surrogati, le copie. I pomodori cinesi sono pomodori cinesi, con i pomodori italiani hanno in comune vaghi tratti della forma, vaghi spunti di sapore, assai vaghi toni di colore. E il nome. Ma non il sole, non l’acqua, non i sali, non la terra, non il mistero della sfumatura d’acido che apre la porta al sapore dell’asprezza nobile e decisa. E se Arabi e Cinesi hanno inventato gli spaghetti, sono spaghetti arabi e cinesi. I maccheroni napoletani sono tutta un’altra pasta.
I maccheroni napoletani incarnano nella semola (chiedo scusa per il cozzo delle immagini, della carne e della semola) i valori della lingua napoletana e perfino l’essenza profana dei riti sacri. Lo sostiene un noto antropologo, che ha trovato il filo , un filo rosso, suppongo, che lega il rosso della salsa di pomodoro con il rosso del sangue di San Gennaro. E io vorrei srotolare questo filo fino ai vini rossi del Vesuvio, che non vedo perché devono restar fuori dal giro. I maccheroni, quelli lunghi (i veri e soli maccheroni), sono le travi su cui si regge l’ identità nostra, lo sono più della pasta corta e più della pizza, che si sono lasciate incantare dalle sirene del mondo globale e perciò si prestano a ogni gioco di cucina e a ogni condimento. Aspirano ad essere internazionali, e si troveranno apolidi, senza patria e senza radici.
Dunque, i maccheroni sono la categoria prima della nostra civiltà, la forma a priori che ci consente di costituire l’ordine del nostro mondo, l’inizio e il fine di ogni nostro percorso. Una filosofia dei maccheroni non solo è possibile, ma è doverosa: una filosofia sistematica che affronti tutte le questioni: la psicologia della conoscenza, l’etica, la morale e la politica (la rivoluzionaria dottrina politica dei maccheroni), e l’estetica. Mi si conceda questa innocente presunzione: nessuno ha mai scritto della filosofia estetica dei maccheroni. Io sarò il primo.
Una sociologia degli spaghetti venne tentata, su suggerimento di Pasquale Barracano, da sei Maestri della cultura e della penna: Giovanni Artieri, Alberto Consiglio, Giuseppe Longo, Paolo Monelli, Mario Stefanile, e Virgilio Lilli, che fu anche un grande pittore. Artieri, Consiglio e Stefanile erano napoletani; Longo era siciliano, e Lilli cosentino di nascita, ma romano di umori e di cultura.
Il modenese Paolo Monelli era padano ed europeo: proprio così scrisse Artieri, inquieto profeta. I loro scritti confluirono nel libro Spaghetti d’oro, che venne pubblicato, fuori commercio, dal Centro ricerche sulle paste alimentari. Era il 1968. Sedici anni dopo Giovanni Artieri raccontò quell’ avventura in Napoli contraffatta, in un memorabile capitolo intitolato Introduzione a una filosofia degli spaghetti, in pagine così scintillanti di intelligenza e di gusto, così dense di spunti d’ironia e di concetti seri e profondi, che quella Introduzione avrebbe meritato un seguito. Ma i sei Maestri sono stati generosi nel regalare suggerimenti e connessioni concettuali e sentimentali a chi voglia riprendere il discorso.
Alberto Consiglio osservò che i vermicelli sono una variazione, una sintesi, una elaborazione e sofisticazione del pane: candido, semplice, filiforme, comodo a trangugiarsi anche senza denti. Il vermicello è un pane che cerca condimento. È una visione romantica. Il vermicello, candido e semplice come Werther o come Jacopo Ortis, cerca quel condimento che lo esalterà e, esaltandolo, lo porterà a dissolversi: trangugiato, assaporato, inghiottito, trasformato in nutrimento vitale del corpo, in voluttà dei sensi, in piacere della rimembranza. In questo i maccheroni si distinguono da ogni altro cibo: il mangiarli non è un imperativo della fame o della gola, ma è l’atto di un soggetto che riflette su sé stesso, è un esame di coscienza.
I maccheroni vanno mangiati a testa alta: e, prima che in bocca, la forchetta deve portarli all’altezza degli occhi di chi sta per mangiarli, perché l’uno e gli altri, congiunti dalla forchetta, si confrontino . Alla prossima.