LA FIAT INSEGNA: É FINITA UN”EPOCA

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    È finita l”epoca della spesa pubblica senza freni, dell”assistenza, dell”impiego pubblico, delle pensioni di invalidità. Ora, va governato il cambiamento. Ma su questo punto nascono i dubbi.
    Di Amato Lamberti

    Come ho scritto nell’intervento sul dibattito, sollevato dalla Chiesa, tra lavoro e dignità, Pomigliano è diventato il luogo in cui si sta combattendo una battaglia per la ridefinizione dei rapporti industriali tra lavoratori, sindacati e aziende. La tesi di Marchionne è molto chiara: così, con gli attuali rapporti industriali, non si può andare avanti. È l’azienda che deve dettare le regole, perchè è l’azienda che deve fare i conti con i mercati nell’epoca della globalizzazione. Sindacati e lavoratori devono accettare le nuove regole, i nuovi tempi, i nuovi orari, perchè l’azienda decide, sulla base delle sue convenienze, anche la sua localizzazione in un paese piuttosto che in un altro (VEDI)

    Praticamente non c’è scelta: se si vuole che lo stabilimento resti a Pomigliano, oggi, perchè del domani non c’è più certezza, la proposta Fiat non è negoziabile. Bere o affogare. A Termini Imerese è andata ancora peggio. Non c’è stata nessuna possibilità di scelta per i lavoratori. Costruire automobili in Sicilia non era conveniente per l’azienda e l’unica soluzione era la chiusura. A nulla sono valse le proteste dei lavoratori, delle loro famiglie, degli amministratori locali, dei politici nazionali. Con la chiusura della fabbrica si è segnato il presente, ma soprattutto, il futuro del territorio. Cancellata per tutti la possibilità di trovare lavoro in una fabbrica automobilistica, anche se catapultata dall’esterno e incapace di creare sviluppo industriale del territorio.

    Ma le colpe sono della fabbrica o del territorio? L’impressione è che nel Mezzogiorno si trascina un problema che nessuno sembra aver voglia di affrontare: quello di interventi industriali, più di tipo assistenziale che produttivo, del tutto slegati dalle logiche del mercato come dalle compatibilità economiche e fiscali.

    Basta guardare cosa sta succedendo in Campania e nelle altre regioni meridionali per quanto riguarda la Sanità. Per esigenze di bilancio regionale e nazionale è necessario chiudere un certo numero di ospedali. La popolazione si ribella non perchè vengono messi in crisi i livelli di assistenza ma perchè si perdono posti di lavoro oggi ma anche nel futuro. L’azienda ospedaliera viene da tutti i cittadini del territorio considerata una certezza di presente e di futuro che orienta anche le aspettative dei giovani e delle loro famiglie.

    In pratica, una fabbrica o un ospedale, nel Sud, sono percepiti come delle pubbliche amministrazioni che mettono a disposizione per l’eternità dei posti di lavoro per i padri come per i figli e tutte le generazioni a venire. Al Comune di Napoli ho trovato dipendenti comunali figli, nipoti, bisnipoti di dipendenti comunali. Ora neppure le pubbliche amministrazioni sono più in grado di assicurare per sempre posti di lavoro anche in sovrannumero rispetto alle esigenze dell’amministrazione.

    Il tema ormai ricorrente dell’eliminazione delle province riguarda sì l’utilità o meno di questa articolazione di governo del territorio, ma, soprattutto, le macchine amministrative spesso pletoriche rispetto alle funzioni dell’Ente provincia: si calcolano in 250mila i dipendenti delle amministrazioni provinciali, oltre a diverse migliaia di consiglieri, assessori, presidenti, con il loro contorno di portaborse e consulenti. Con l’attuazione del federalismo fiscale questa possibilità si ridurrà ulteriormente perchè è dalle tasche dei cittadini che dovranno uscire le retribuzioni dei dipendenti pubblici. Si dirà che anche oggi è così ma su un piano nazionale perchè è lo Stato che assicura oggi le retribuzioni dei dipendenti pubblici.

    Quando il cittadino della Campania si troverà scaricato sul prelievo fiscale che direttamente riguarda le sue tasche i costi delle amministrazioni pubbliche, sarà molto difficile fargli digerire piante organiche spropositate rispetto alle esigenze reali. Nè si potrà sperare nella perequazione nazionale se non all’interno dei limiti dei costi standard. Quando Marchionne denuncia la situazione limite dello sciopero o delle malattie per poter restare a casa a vedere la partita della nazionale di calcio, sposta pretestuosamente l’oggetto del dibattito, ma dice anche una verità che è quella che troppo spesso la fabbrica viene confusa dai lavoratori con una pubblica amministrazione dove certi comportamenti sono la regola perchè non si devono fare i conti con i risultati produttivi, con la competitività e con il mercato.

    Fermo restando che i diritti dei lavoratori sono sacri e sono tutelati dalla Costituzione, le fabbriche, le aziende ospedaliere, le pubbliche amministrazioni, da oggi in poi, dovranno fare i conti con la produttività, il mercato, la fiscalità, le risorse a disposizione.
    Bisogna prendere atto che l’epoca della spesa pubblica senza freni, perchè tanto c’era sempre pronto lo Stato a ripianare i debiti e ad evitare il fallimento degli Enti locali, è finita. Per il Mezzogiorno è la fine di un’epoca: quella dell’assistenza, dell’impiego pubblico, delle pensioni di invalidità.

    Il problema vero è che per governare il cambiamento sarà necessario un ceto dirigente e una classe politica del tutto nuovi e diversi. Ma quanto tempo ancora dovranno ancora aspettare i meridionali per vedere questo necessario rinnovamento amministrativo e politico? Sono quasi 150 anni che aspettano i “cento uomini di ferro” che secondo Guido Dorso sarebbero stati sufficienti per cambiare il Mezzogiorno e allinearlo al resto dell’Italia.

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