L”Italia borghese è unita in cucina –fin dal 1891- grazie ad alcuni piatti provenienti dall”Eldorado nazionale del mangiar bene. Unita era anche la società contadina, con la tavola della miseria. Di Carmine CimminoSono quasi tutti d’accordo: con la “Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene“, la cui prima edizione fu pubblicata nel 1891, Pellegrino Artusi unificò, almeno a tavola, l’Italia borghese. In questo progetto di unificazione egli seguì il metodo di Kant, il quale riteneva che l’intelletto funzionasse secondo categorie universali, e che queste categorie fossero i modi di pensare degli europei di Berlino, di Parigi e di Londra.
Artusi unificò la cucina della borghesia italiana intorno ad alcuni piatti che appartenevano all’Eldorado del mangiar bene: l’Emilia, la Romagna, la Lombardia padana, l’alta Toscana. Lo dimostra il pranzo che egli suggeriva per il capodanno. Si apre, il menù, con il “composto di cappelletti di Romagna“. I cappelletti si chiamano così perché hanno la forma di un cappello medioevale, una specie di tricorno sghembo: nel sec. XV lo portavano i mercenari dell’esercito veneziano. È una pasta che i romagnoli riempiono con petto di cappone, o con lombata di maiale “tritati – dice Artusi – fine fine con la lunetta“, e con tre tipi di formaggio: ricotta, parmigiano e “cacio raveggiolo“, che era un formaggio fresco non salato, e che oggi può essere sostituito dalla crescenza o dallo stracchino molle.
I cappelletti reggiani, invece, erano, e sono, ripieni soprattutto di carne, manzo, maiale, vitello, con l’aggiunta del prosciutto crudo tritato finissimo, e di parmigiano. In entrambe le versioni c’era la noce moscata: nei suoi cappelletti all’uso di Romagna Artusi prevedeva anche la presenza di un po’ di scorza di limone. Questa pasta ripiena va cotta nel brodo di cappone, “di quel rimminchionito animale che per sua bontà si offre nella solennità di Natale in olocausto agli uomini”.
Rimminchionito, olocausto: Artusi “drammatizza“ la lingua di cucina, è abile con le metafore, così come con i sughi. L’immagine di questo cappone stupido che si offre in olocausto impiglia il mio istinto analogico in un fastidioso sospetto: vuoi vedere che le caste vecchie e nuove della politica, della finanza, di un certo giornalismo ci ritengono non diversi da questi capponi “rimminchioniti”…E perciò conviene ricordare che un amico di Artusi “crepò“ per aver mangiato cento cappelletti in brodo. Dunque, bisogna essere prudenti: “a un mangiatore discreto bastano due dozzine“, concedeva lo scrittore: oggi è sufficiente anche la metà.
Cappelletti e tortellini in brodo divennero un piatto nazionale, perché rappresentavano in modo conveniente l’idea della grassa abbondanza, e per la duttilità del ripieno, che poteva fare a meno anche dell’involucro di pasta, Infatti, il “composto“ consigliato da Artusi era il solo ripieno, senza la sfoglia: una raffinatezza per golosi contro cui aveva già lanciato il suo anatema, seicento anni prima, Salimbene Adami. Ricordiamo il resto del menù solo per curiosità: cotolette di vitella o di petto di pollo o di tacchino, spalmate di balsamella sotto e sopra, e fritte “nell’olio o nello strutto”; bue alla brace con carote; pasticcio di starne e pernici; arrosto di anatra domestica e piccioni. Dopo un tale macello ci vuole il dolce.
Il gateau à la noisette – “diamogli un titolo pomposo alla francese, che non sarà del tutto demeritato“ – è una sinfonia di nocciuole e di mandorle dolci, tenuta insieme dalle uova, dal burro e dalla farina di riso, e illuminata dalla vainiglia, mentre il dolce di Torino è una struttura a più strati di savoiardi, “tagliati in due parti per il lungo“, bagnati con il rosolio e con l’alkermes, spalmati, sopra e sotto, con cioccolata. Il dolce va preparato il giorno prima: “prima di servirlo, lisciatelo tutto alla superficie con la lama di un coltello scaldato al fuoco, e, in pari tempo, piacendovi, ornatelo con una fioritura di pistacchi oppure di nocciole leggermente tostate, gli uni e le altre tritate finissime”.
Queste ricette descrivono meglio di un romanzo l’atmosfera di una ricca casa borghese sul finire del sec.XIX: ci vedi i salotti che incantarono D’Annunzio giovane e Gozzano, lo zio monsignore, i sigari, i merletti, le alte cucine piene di fumo, le chiacchiere di cuochi e di cameriere, le signore morbide nella lettura di lacrimevoli poeti d’amore, e occhiute e rapaci nell’amministrazione del patrimonio. Artusi “racconta“ anche la ricetta del rosolio tedesco: “sminuzzate tutto intero un limone, togliendovi i semi e unendovi la buccia che avrete grattata in precedenza, dividete in piccoli pezzetti la vainiglia, mescolate tutto con lo spirito di vino del migliore, con lo zucchero e con il latte in un vaso di vetro, e vedrete che subito il latte impazzisce. Agitate il vaso una volta al giorno e dopo otto giorni passatelo per pannolino e filtratelo per carta.
“I toscani dicono che il latte impazzisce quando si raggruma, rifiuta di mescolarsi e di perdere la propria identità: è una bella metafora, che dà l’idea della battaglia che si svolge in quel vaso tra il latte e lo “spirito del vino“.
Nel 1881 la Commissione presieduta da Stefano Jacini pubblicò le relazioni ufficiali dell’ inchiesta agraria e trenta anni dopo Oreste Bordiga illustrò le condizioni dei contadini della provincia napoletana ai membri della commissione parlamentare. I testi descrivono una società contadina che dal Veneto alla Sicilia è stata saldamente unificata non da Garibaldi e dai Savoia, ma dalla tavola della miseria: erbe, vino annacquato, farina di granoturco, castagne. Tra Acerra, Nola e il Vesuviano interno i contadini mangiano, di mattina, pane e frutta, a mezzogiorno pane e un piatto caldo, “per lo più di legumi all’olio“, e talvolta un pezzo di baccalà, e a sera pane, frutta e un po’ di formaggio. I maccheroni sono il piatto della domenica: li accompagnano, raramente, le braciole di maiale, e più frequentemente melanzane e pomodori.
Quelli che coltivano il tabacco prendono un salario più sostanzioso e si possono permettere il pecorino di Turchia e il “caso muscio“ dei pastori avellinesi. La frittata d’uova, “ ‘o filoscio“, imbottito di “caso muscio” e il pane bagnato nei fagioli furono una nutriente e ineluttabile piacevolezza della nostra infanzia: di noi, nati subito dopo la guerra. E in case in cui non c’era spazio per il lusso. Fortunatamente.
(Quadro di Silvestro Lega, “Canto di uno stornello”, 1867)


