Per evitare che i figli paghino le colpe dei padri. Di Ciro Raia
Un mio giovane amico, abituale lettore delle pagine del diario, mi ha chiesto, più volte, di esprimermi su come io immagini che la scuola si prepari al futuro. Non ho difficoltà a dichiarare che, per quanto mi riguarda, il futuro della scuola si chiama memoria. Specie nel momento in cui sono avvenuti inquietanti mutazioni negli organizzatori di base dei popoli.
Quando saltano, infatti, le tranquille cittadelle dell’economia e del lavoro, della geografia e della storia delle culture, allora è necessario potersi avvalere di una memoria intorno a cui ricollocarsi socialmente e da cui individuare i valori da selezionare. E nelle istituzioni, che respirano Europa e ne formano i cittadini, è importante educare alla serendipità, quella capacità o arte, cioè, di rilevare e interpretare i dettagli apparentemente più insignificanti in una traccia di riflessione e di ricostruzione di un processo.
Questo percorso, ovviamente, esclude il tradizionale artificio scolastico, che ritrova ogni legittimazione didattica solo nei programmi di studio, nel selezionato, delimitato e concluso. Mentre diventa importante educare all’apprendere a vivere, sapendo gestire l’incertezza, le emozioni, le curiosità, il non concluso. Con il conseguente capovolgimento di un modello, che, superando i prodotti manierati e le sterili simulazioni ripetute mille volte, restituisca agli allievi il gusto della conoscenza del mondo, attraverso una ricerca esistenziale dell’identità. Chi sono e cosa faccio io in questo luogo? Di quali conoscenze ho necessità per penetrare e governare i modelli della mia tribù? Di quali valori sono portatore ed intorno a quale memoria essi si abbarbicano?
Dovrebbero essere queste le domande “intelligenti” di un giovane scolaro, che non si lasci affasciare dai panni del bullismo, della noia, della consuetudine, del prodotto finito ad ogni costo. E dovrebbero essere queste le domande di chi è deputato, responsabilmente, ad educare alla socialità, alla salvaguardia dell’ambiente, alla salute, alle regole della vita pubblica, delle istituzioni, del lavoro, della vita culturale. Così la scuola potrà sentirsi parte integrante di un contesto comunitario, dove il rapporto interattivo scuola-società è la pregiudiziale ineludibile per costruire il rapporto io-mondo. Così la scuola non sarà più sede delle definizioni, delle storie parziali e di apprendimento di “certe” opinioni, ma governo della realtà con tutti i dubbi, le incertezze, stati di malessere e di benessere. Sarà la scuola dell’apprendimento alla complessità.
L’apprendimento -che è parola già di per se stessa con significato di “processo di acquisizione delle nozioni necessarie ad un individuo per conseguire o migliorare l’adattamento all’ambiente”- non può, quindi, prescindere dall’individuazione di compiti precisi a cui rispondere. Ciò presuppone il superamento, non l’annullamento, del curricolo dei saperi a tutto vantaggio del curricolo delle logiche. Un ennesimo modo per dire che l’acquisizione delle strumentazioni di base è il presupposto, e non il traguardo a cui tendere, per realizzare compiti, veri concentrati di sviluppi logici e sistemi rigorosi. I sistemi rigorosi inglobano anche il sistema-uomo, per cui chi va a scuola deve avere una grande garanzia: acquisire la fiducia di “essere capace”. Essere capace di essere un cittadino, essere capace di essere un lavoratore, essere capace di essere un politico, essere capace di essere.
I sentimenti di solidarietà europea non possono essere delle semplici dichiarazioni di intenti. La solidarietà è un comportamento, un modo di operare. Ogni problema non può essere risolto semplicemente e da un solo Stato. A problemi complessi si richiedono soluzioni complesse: che sono transnazionali ed associative. La globalizzazione non resta in vita senza la concertazione. Est ed Ovest dell’Europa, specie dopo il 1989, sono chiamati a rispondere, in modo coerente, corretto e chiaro, ad istanze sovranazionali. La salute, l’ambiente, il lavoro sono problemi della casa comune.
Ripensare l’apprendimento è dare, perciò, strumenti logici per affrontare i delicati processi di sviluppo dei prossimi anni, ricchi di incertezze e di dubbi. I destini degli uomini sono legati da una stessa identità: il pericolo delle armi nucleari è uguale al rischio dell’ ”effetto serra”; l’inquinamento delle acque è letale quanto quello dell’aria, dell’economia, della politica, della cultura.
Il senso di appartenenza si conquista solo agendo sulla solidarietà e sulla responsabilità. Oltre i discorsi civici, i decaloghi delle buone intenzioni, i manuali di comportamento, resta il radicamento all’interno di una identità conosciuta, condivisa, respirata, amata. Identità che, se come succede spesso nei nostri anni, si perde in gretti personalismi e in assenza di valori, può ritrovarsi solo nella cultura della memoria. Necessita partire dalla memoria per ritrovarsi, poi, in una identità, di volta in volta, nazionale, europea e planetaria.
Per battere questi sentieri ed ottenere conseguenti risultati, la scuola ha bisogno di buoni docenti. Di docenti che sanno e sanno insegnare; che sanno prendere dall’interno della loro disciplina ma sanno ritrovare le risposte anche all’esterno della loro disciplina. Nessuna disciplina non comunica con un’altra. I presunti sconfinamenti o le false interferenze non fanno altro che creare ponti, collaborazioni, sinapsi. La scuola è un teatro di vita. Chi volontariamente si propone a sostenere i giovani nella fatica dell’apprendere, nel facilitare loro i percorsi, deve governare non solo i saperi (mai trasmissivi) ma tutta la regia del teatro. Un buon regista lavora sul testo, affina le parti per gli attori, cura i particolari, studia i toni, le luci e le musiche. E se questo può sembrare troppo “teatrale”, in altre parole, c’è bisogno che i docenti respirino gli statuti disciplinari, la metodologia della ricerca e l’organizzazione dei processi di programmazione.
Il regista di scuola non può invecchiare su vecchi modelli e decrepite teorie. “Se voglio vivere, devo dimenticarmi che il mio corpo è storico, devo abbandonarmi all’illusione di essere contemporaneo dei giovani presenti, e non già del mio corpo, passato. In altre parole, io devo periodicamente rinascere, farmi più giovane di quello che sono”(Roland Barthes, Lezione, 1981). In fondo, essere contemporanei è collocarsi tra memoria e futuro. Ed essere docenti contemporanei è saper insegnare a porsi delle domande, piuttosto che dare delle risposte. Non a caso il filosofo e psicanalista Cornelius Castoriadis ha scritto che il vero problema della civiltà globale, è che abbiamo smesso di farci delle domande.
Ora è tempo che le domande si facciano tutte. Farà bene a chi ha la responsabilità di educare, a chi ha quella di governare, a chi semplicemente sta guardare. Ed evitare, così, che nel teatro della vita avvenga ciò che avveniva nel teatro tragico greco: i figli predestinati a pagare le colpe dei padri.