Il compleanno del maestro Mario Lodi ci offre la possibilità di parlare di tempi in cui la Scuola era lotta e speranza. Certi argomenti non sono vecchi, aiutano a sconfiggere il silenzio. Di Ciro Raia
Vi ricordate del maestro Mario Lodi, l’autore de Il paese sbagliato (Einaudi, 1970)? Venerdì scorso ha compiuto 90 anni. È stato -come meritava- molto festeggiato e alcuni quotidiani, non lasciandosi sfuggire la ricorrenza, gli hanno dedicato interviste e commenti. Forse, ai più giovani, il nome di Lodi dirà ben poco. Bisogna essere veri amanti (direi quasi esteti) di cose della scuola, per aprire il cuore e la mente a personalità (ormai fuori scena) come il maestro di Vho (suo paese natale, in provincia di Cremona, che ricorre anche nel titolo di un altro libro: C’è speranza se questo accade a Vho, Einaudi, 1963), come Albino Bernardini, Aldo Capitini e qualche altro, veri pilastri della pedagogia innovativa.
Lodi cominciò ad insegnare agli inizi degli anni ’50 del secolo scorso, in un momento in cui il paese Italia cominciava a risollevarsi da un ventennio di dittatura e dalle rovine della guerra. Bisognava far sparire la paura dagli occhi dei bambini, costruire percorsi di relazioni e ricostruire le coscienze, badando a comunicare con una lingua che doveva unire laddove aveva sempre fatto la differenza. Era il periodo in cui cominciava a passare -grazie, soprattutto, alle idee diffuse dal pedagogista francese Célestin Freinet- l’immagine di una scuola non più trasmissiva ma collaborativa e criticamente ricettiva. Mario Lodi fu amico di don Lorenzo Milani, il primo a pensare alla scuola, in Italia, come a uno strumento di democrazia!
Intorno a questi pionieri della didattica innovativa (tra cui Piaget, Visalberghi, Bini, De Mauro, Vygotskij, Santoni Rugiu [nomi citati, così, alla rinfusa, ma ne dimentico molti!]) si accesero le speranze di un paese, che aveva capito di potersi rigenerare essenzialmente attraverso l’istruzione. Purtroppo, vana speranza! Oggi il novantenne Mario Lodi commenta con amarezza: “l’Italia è un disegno incompiuto. Non è nato il popolo che volevamo rieducare, così come non è nata la nuova scuola che avevamo in mente. Se mi volto indietro, se penso al nostro lavoro di quei decenni, mi sembra tutto vanificato. Ora è prevalsa la scuola tradizionale, un modello competitivo che somministra nozioni e dà la linea”.
Noi giovani di allora, che scegliemmo intenzionalmente di essere insegnanti, prima di perderci, in gran parte, nelle idiozie della scuola-azienda o di improvvidi distrattori -grembiulino sì-grembiulino no, giudizio di valutazione o voto, didattica breve compensativa o riduttiva ed tanto altro ancora- avemmo, però, buoni esempi e buoni modelli di riferimento. Ricordo il mio primo giorno al corso di abilitazione all’insegnamento di materie letterarie nella secondaria di I grado (1975). In un’aula della scuola media “A. Manzoni” (scomparsa molti anni prima delle logiche del risparmio sottese alla cosiddetta razionalizzazione della rete scolastica), al Corso Vittorio Emanuele di Napoli, il nostro docente di scienze dell’educazione, il preside Nino Pino, si presentò con un borsone pieno di libri.
Quindi, dopo aver detto brevemente di sé, tirò fuori i libri, uno a uno, cominciò a parlare a noi, giovani laureati in lettere in attesa di insegnamento, di ognuno di quei volumi, chiedendoci se mai ne avessimo letti qualcuno e cosa ne pensassimo: Vittoria Ronchey Figlioli miei, marxisti immaginari, Ivan Illich Descolarizzare la società, Albino Bernardini Un anno a Pietralata, Umberto Eco Apocalittici e integrati…Poi, dal fondo del borsone estraendo gli ultimi due libri, disse: “Questi sono gli unici libri risparmiati al rogo del ’68: sono il Libro rosso dei pensieri di Mao Tse Tung e Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani”.
Successivamente, poi, il preside Pino (diventato, per me, maestro e fratello e, quindi, solo Nino) ci parlò più volte di don Milani e della scuola di Barbiana e non omise mai di sottolineare con la sua accattivante dizione: “Pensate, sulla porta di quella scuola c’era scritto: I care (mi interessa, mi riguarda)”. Com’è difficile, oggi, pensare a una scuola che stimoli l’interesse dell’alunno (un interesse inteso come attenzione ai fatti che accadono nella società, che vedono protagonista l’uomo).
Pochi giorni fa, Adele Corradi, una professoressa che ha lavorato col prete scomodo nella scuola di Barbiana, ha dato alle stampe Non so se don Lorenzo (Feltrinelli), un libro in cui cerca di ricucire le tappe di un rapporto tanto coinvolgente quanto problematico. “Sono nata a Firenze nel 1924 e per tutta la mia vita lavorativa sono stata insegnante di lettere nella scuola media. Sono andata in pensione a 67 anni. Devo confessare che ero un’insegnante identica alla destinataria della “Lettera a una Professoressa”. I rimproveri che i ragazzi di Barbiana rivolgono a quell’insegnante me li meritavo tutti. Per questo non c’è una parola della Lettera che non sottoscriverei. L’incontro con la scuola di Barbiana e con don Milani ha scavato un solco nella mia vita. Mi son vista come non mi ero mai vista. E non solo come insegnante, ma come persona”.
Da un po’ di anni -devo dire insieme e con la complicità di pochi altri resistenti capatosti e fessi (per l’immaginario collettivo)- mi sento come se fossi stato relegato in una riserva indiana di Sioux, Lakota fa lo stesso. Le riserve sono ricche di storia dei Nativi e sono l’ultimo rifugio, che lega l’individuo alla propria terra.
Abbiamo attraversato anni di lotta e di speranza. Abbiamo intrapreso percorsi di studio (epistemologia, scienze dell’educazione, valutazione…), siamo stati educati a metterci sempre in discussione e, senza avere mai certezze, siamo stati sommersi dalle certezze degli altri.
Per gran parte degli addetti ai lavori costituiamo un vero problema: di disagio, di insoddisfazione, sin’anche di mancanza di autostima. Una vera follia -dicono di quelli come noi- continuare a farsi del male, quando ognuno ha tante pene nella propria giornata. Diceva don Milani: “chi si occupa dei ragazzi non deve avere pene personali! Le sue pene personali devono essere quelle dei suoi ragazzi!”.
Mi chiedo, spesso, perché insisto su certe tematiche e perché riprendo certi, ormai, apparentemente superati ragionamenti. Rischio di passare per un inguaribile laudator temporis acti. E non è così. Assolutamente.
Ho, forse, solo necessità, da testimone e piccolo protagonista di un tempo di passione e di sangue, che tutto ciò che i nostri “maggiori” hanno detto, scritto e fatto non vada irrimediabilmente perduto. E che qualcuno ancora si industri a utilizzare la categoria del pensiero più che quella del silenzio.