I vesuviani, nel periodo precedente l”arrivo di Garibaldi, erano talmente poveri che non potevano permetersi nemmeno i maccheroni. E per forza di cose erano >mangiafoglie. Di Carmine CimminoCosa mangiavano i vesuviani all’arrivo di Garibaldi? Andiamo a leggerlo nelle relazioni degli Ufficiali Sanitari. La spietata chiarezza dei numeri dimostra che per molti vesuviani l’epiteto di mangia maccheroni suonava come una presa in giro: avrebbero voluto esserlo, ma la tasca non consentiva nemmeno questo. Un operaio specializzato della Guppy guadagnava 2 lire al giorno, una tessitrice meno di una lira. Un chilo di maccheroni costava poco meno di mezza lira.
Nei paesi non c’erano i maccaronari, che invece in città piazzavano le loro marmitte ribollenti all’aperto, e vendevano a due o tre soldi piattelli di pasta appena macchiata di sugo di pomodoro e toccata qua e là da una timidissima spruzzatina di cacio piccante di Crotone.
I giornalieri vesuviani erano condannati a restare mangiafoglie, e, per loro fortuna, gli orti del Vesuvio e la piana del Sarno fornivano a sufficienza erbe di ogni tipo per saziare la fame: radici di rapa, broccoli, broccoli di rapa, che costituivano uno dei piatti tipici del Natale, cavoli cappuccio, cavoli sverzi, che i napoletani chiamano virzi, a foglie crespe e a foglie lisce; i cavoli torzo, detti anche torzelle, il cavolfiore marzotico e quello natalino, i carciofi, la scarola cicoregna, la scarola ricciuta, la scarola schiana, che si raccoglieva tutto l’anno e nutriva anche i cavalli.
Le lattughe, a cappuccio, a palla, ricciute, costituivano la base delle insalate che erano un piatto fisso sulla tavola dei poveri: molti usavano mangiarne crude le foglie, ben conoscendo le virtù rinfrescanti e calmanti di quell’erba. Ma ogni erba aveva la sua virtù, e la trasmetteva all’insalata: la cicoria vesuviana e la cicoria selvaggiuola depuravano il sangue, il finocchio aiutava a digerire, l’appio, l’ alaccia, era diuretico, mentre la menta, l’origano, arecheta, e il prezzemolo insaporivano il piatto. Chi se lo poteva permettere, aggiungeva alla lattuga anche i cardoncelli, la ruchetta, la porcellana, che il popolino chiamava porchiacchella. Le insalate di urticanti foglie della stracciacannarone, e cioè di crescione a foglie larghe e di crescione riccio, e di acetosella, venivano consigliate dai medici per le loro virtù diuretiche e antiscorbutiche.
Era largo il consumo, nelle zuppe col pane e nelle minestre con pasta corta, dei fagioli bianchi, e dei fagiolilli. Le fave a semi piccolissimi servivano da nutrimento dei cavalli: agli uomini erano riservate le mezze fave e le fave dette volgarmente schiane, che sono le più grandi e quando erano verdi e tenere si mangiavano crude, ed erano cibo devozionale per la Pasqua. Fresche, si usavano nelle zuppe con le cipolle; ma in inverno si facevano secche e amare, così che il popolo minuto chiamava le zuppe di fave secche cibo dei detenuti. I piselli si consumavano sempre freschi: erano un cibo per ricchi, a causa del costo elevato, ma a Pasqua anche i poveri facevano in modo che fossero presenti sulla loro tavola.
Anche i ceci si mangiavano solo secchi e in minestra, e non molto spesso, e non perché fossero poco digeribili, ma perché disturbavano le visceri. Non era frequente l’uso delle lenticchie e delle cicerchie siciliane. Le barbabietole che i napoletani chiamavano carote venivano arrostite, o bollite, o congiunte con le cipolle in sapide insalate. Le radici delle carote, le pastenache, trattate a lungo con l’ aceto, e con l’aggiunta di aglio, peperoni, menta e altre erbe aromatiche formavano quel piatto speciale che si chiama scapece.
Scrive nel 1863 un sanitario dell’ Amministrazione Provinciale:
“Quattro sono le specie del ravanello: rosso, bianco, quello a radice lunghissima, l’altro detto rapesta, che è molto carnosa, e spesso è grossa tanto da pesare una libbra. Il nostro volgo ne mangia a fine pasto, e fa bene, perché hanno sapore e odore speciali, e favoriscono la digestione, essendo una pianta crucifera; le sue foglie di sapore amaretto sono antiscorbutiche. Le cipolle sono assai usate, specie quelle con il bulbo grosso, che si chiamano agostegne e si conservano per tutto l’inverno: la povera gente le mangia crude col pane. I Napoletani sono ghiotti delle cipollette mangiaiaole, col bulbo piccolo, le quali seminate in settembre si mangiano a maggio o a giugno con le minestre di fave e di piselli, o crude con diverse insalate. Fanno bene i campagnoli a mangiarla insieme al pane di mais: ma sbagliano i napoletani a farne abuso, soprattutto la sera, perché contiene “un olio bianco acre volatile” che in larga dose inasprisce il tubo digerente”.
La carne di bue e di vitello costa tanto che se la possono permettere solo gli agiati. Il popolo minuto mangia in estate carne di agnello, raramente di castrato, e in inverno carne di porco. Il pollo é considerato un cibo leggero, da infermi, mentre largo, a Natale, è il consumo di capponi. Più delle alici e più dei maccheroni, è stato il porco nero a nutrire il popolo minuto del Vesuviano. Le salsicce e le costatelle si vendevano fritte per strada, “al vilissimo prezzo di 3 centesimi ciascuna”. Il grasso del porco veniva liquefatto in sugna, e i residui carnosi, i cicoli, erano una prelibatezza per i poveri. Era largo il consumo del fegato di porco diviso in pezzi, e di zoffritto: un misto di pezzi di fegato, milza, rognoni, cuore e polmoni del porco, cotti nel grasso e conditi con pepe e foglie di lauro.
I bettolieri lo esponevano all’ingresso della taverna, in zuppiere di terracotta dipinta: in inverno ‘o zoffritto serviva da esca ai bevitori. Zampe, muso, intestini del bue e del porco, e in particolare lo stomaco di bue, formavano la trippa o capezzale, che però non costava poco. In inverno i beccai vesuviani vendevano, a 2 centesimi la ciotola, anche zuppe di cotiche di maiale: i sanguinacci di porco, trattati con zucchero, aromi e cioccolata, erano cibo per agiati. Dopo il 1862, le commissioni sanitarie consigliarono di diffondere l’uso del castrato, perché “in paragone all’agnello è molto più ricco di masse muscolari, e quando non è molto grasso dà buona carne, a un prezzo molto più mite di quella del bue”. Non fu facile rimuovere dai banchi dei beccai il fegato di porco con cisticerchi e la carne di agnello affetto da schiavina.
Operai e contadini facevano un largo consumo di stocco e di baccalari: non potevano permettersi le anguille del Sarno e del Garigliano, e nemmeno le alici, che nel 1867, nel mercato di Torre del Greco, costavano anche 30 centesimi il chilo. I pescivendoli locali si rifornivano a Torre di ruonchi, marvizzi, pesce palumbo, sauri, sarde, fiche e suace, che erano i nomi napoletani di un tipo di platessa e del gado minuto. Il grido, fiche sarde suace, risuonando nei quartieri del popolo minuto, annunciava l’arrivo del carrettino colmo di spaselle di pesce: anche la pescatrice costava poco. Allora.
Dal mercato di Castellammare veniva il pesce dei ricchi: triglie, calamari e seppie. Tra il 1875 e il 1880 i ristoranti di Portici e di Torre del Greco, in cui la media borghesia festeggiava i matrimoni, incominciarono a introdurre nel menù anche la frittura di pesce, accanto ai piatti rituali di carne: il pollo, la braciola, e, per gli sposi più ricchi, l’arrosto di vitella.
(Foto: Ragazzo napoletano, da un quadro di Joachim Sorolla)