In Italia ancora 2 milioni di disoccupati, tra di loro quasi la metà giovani sotto i 35 anni.
Anche se, in questi giorni, siamo tutti storditi e confusi dalle trasmissioni televisive sul referendum (finalmente domenica prossima ci libereremo da questo incubo!) i problemi reali della gente rimangono. I rifiuti, la criminalità organizzata, la sanità, la corruzione e, soprattutto il lavoro che manca, sono problemi quotidiani per tanti cittadini. E, quello del lavoro, a mio avviso è, da sempre, “il” problema. E stavolta voglio affrontare un dilemma: rapporto scuola- lavoro. Parto da un dato: mentre in Italia la disoccupazione giovanile è al 37 %, in Germania è al 6,8% e in Alto Adige al 3,2%. Da una parte la disoccupazione giovanile italiana al 37,1% (vicina al 50% nelle regioni del Sud, mentre in provincia di Bolzano è al 3,2%!); dall’altra la disoccupazione giovanile in Germania al 6,8%. Ma come è possibile questa differenza così abissale, visto che Italia e Germania sono due Paesi leader a livello mondiale per il loro sviluppo industriale e tecnologico? Si potrebbe dire che questa è la “questione delle questioni” del nostro Paese. Il governo ha cercato di fare qualcosa, ma rimangono circa 2 milioni di disoccupati, tra di loro quasi la metà giovani sotto i 35 anni. Confindustria lamenta che le proprie imprese cercano 60mila profili professionali che non vengono riempiti perché le competenze dei giovani che escono dalle scuole superiori non sono adatte al bisogno. Un diplomato italiano ci mette 14 mesi, in media, per ottenere il primo contratto di assunzione stabile, in Germania il tempo medio non supera i 4-6 mesi. I laureati poi quando ci arrivano hanno il loro primo statino attorno ai 28-29 anni; di nuovo in Germania e nei Paesi del Nord Europa nel giro di 3-6 mesi al massimo si aprono le porte delle aziende, e gli stipendi sono già in partenza quasi doppi dei nostri. E’ evidente che in Italia qualcosa non va come dovrebbe. Anche il governo lo ha capito e sta puntando sulla “formazione duale”, aprendo cioè alla collaborazione stretta tra scuole tecniche superiori e aziende. In questo modo, e solo in questo modo, partendo già a 15-16 anni, i giovani potranno capire cosa vuol dire “andare al lavoro”, sentire i rumori, gli odori, i comandi, i ritmi delle fabbriche e degli uffici. In una parola, potranno assumere i tratti di giovani “concreti”. E va in questa direzione, ad esempio, l’azione di Confindustria chiamata “Orientagiovani”, basata su incontri promossi su tutto il territorio nazionale tra i giovani delle scuole superiori e le imprese. Finora ne sono stati coinvolti oltre 20mila in una novantina di territori. In pratica si dice ai ragazzi che per reagire alla crisi bisogna saper fare i conti con la concorrenza internazionale sempre più agguerrita. E in più stare al passo con le tecnologie che avanzano. Apprendistato da sostenere e diffondere. Uno dei segreti della crescita italiana degli anni ‘50 e ‘60 fu basato sulla presenza di giovani usciti dalle scuole professionali e da quelle tecniche superiori che andarono a rinforzare le migliaia di piccole e medie imprese: da quel tessuto partì il boom economico. E’ importante, a questo punto, un intenso e continuo dialogo azienda-scuole del territorio. Ma anche la famiglia è chiamata ad orientare i figli formandoli una mentalità per il lavoro, invitandoli a sperimentare piccoli periodi di lavoro presso un artigiano o uno studio professionale. Capiranno presto, così, l’impegno richiesto per guadagnarsi onestamente uno stipendio. Occorre però “snellire” la burocrazia, per permettere agli imprenditori di far fare ai giovani esperienze lavorative. Tocca quindi alla politica incrementare queste facilitazioni di, per avere così giovani più concreti e motivati, oltre che capaci di interrogarsi su cosa vogliono davvero per il loro futuro. Mi auguro veramente che, passata la “sbornia” del Referendum (pur importante) si affrontino i veri e reali problemi di vita della gente, soprattutto dei più deboli ed “ invisibili”.