Paccheri con crema di radicchio: il piatto della serenità in riva al mare

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La ricetta è di Mario Esposito, chef del ristorante “Le Arcate” di Praja a Mare, un artista della cucina di cui Folco Portinari avrebbe ammirato l’attenzione ai valori cromatici e ai profumi del “piatto”, e la calma olimpica del cuoco che tutto osserva, tutto segue in silenzio, e “parla” con i gesti. Diceva un famoso chef vesuviano degli anni Ottanta che il cuoco che grida e si agita e toglie il respiro ai suoi collaboratori fa solo piatti “scumbinati”, senza capo e senza “coda”.

 

Ingredienti (4 persone): gr. 600 di paccheri; gr.200 di ricotta di pecora; gr.200 di prosciutto crudo di Parma tagliato a dadini; mezzo bicchiere di vino rosso; 1 radicchio medio, tagliato alla julienne; 1 cipolla di Tropea;2 melanzane sbucciate con un pelapatate e tagliate in listarelle; olio extra vergine. In una casseruola fate rosolare, nell’olio, la cipolla tritata finemente e, quando questa si indora, anche i dadini di prosciutto. Dopo pochi minuti fate sfumare con il vino rosso. Dopo aggiungete i filamenti di radicchio, fateli appassire per circa 5 minuti, versate 2 mestoli di acqua di cottura della pasta che già state preparando, e lasciate cuocere fino alla “riduzione” dell’ortaggio. Dopo la cottura frullate il tutto, formate una crema omogenea, mentre le listarelle di melanzane friggono nell’olio bollente di una padella. Quando i paccheri sono quasi cotti, “saltateli” nella crema, aggiungete le listarelle cotte delle melanzane e la ricotta secca sapientemente grattugiata. E servite.

 

Già avevo notato la sensibilità di Mario Esposito per i valori cromatici del “piatto” quando mi aveva fatto gustare gli gnocchi con pomodorini del piennolo e un’insalata di riso. Dei paccheri con crema di radicchio mi ha colpito subito il velo verde steso sulla pasta: il verde morbido, il verde che Edgar Degas dispiegava sui paesaggi, sulle acque del mare e dei fiumi, sul bianco delle vesti delle ballerine, a ricordarci che il “verde” è il colore della natura, della vita e della speranza, e nel tono delicato che l’artista sapeva trarre dai suoi pastelli, era, ed è, il colore della serenità. Una serenità particolare, come quella che ci accade di percepire quando siamo seduti sulla riva e contempliamo il mare: una serenità che domina e placa gli urti, le ansie e i fastidi della vita quotidiana, li mette lì, nell’angolo, e ci consente, per lunghi attimi, di osservarli con distacco: anche il mare delle nostre estati frena e nasconde i flutti, le ondate e i marosi, ma di tanto in tanto si sveglia, ci sveglia e ci ricorda che stanno lì, le agitazioni. La crema vellutata del radicchio crea armonia tra il sapore energico della melanzana, che non a caso fu a lungo considerata un afrodisiaco, e la forza elegante del vino rosso, e l’aggressivo sentore del prosciutto crudo di Parma: il “genio” di Mario Esposito ha saputo “disegnare” e realizzare la sequenza di passaggi che portano a questa straordinaria armonia: non dobbiamo meravigliarci del fatto che musicisti di grande nome furono abili anche in cucina. Qualche anno fa scrissi che la pasta, che i Napoletani chiamano “pàccari”, sono il simbolo luminoso di una soddisfazione serena, dell’amicizia, della pace:  meritavano un nome  lungo e piano, di ampia e dolce sonorità, come è ampia e dolce la loro forma: un nome che suonasse come la parola “lasagna”. E non parliamo degli Italici che hanno trasformato “paccaro” in “pacchero”, restringendo la “a “ in “e” – non sanno che i “restringimenti”, come diceva Nino Taranto, sono dolorosi –  e torcendo quel nome come per strangolarlo. Ma forse risolviamo il problema prolungando, nella pronuncia, la durata della “a” di “ca”: e allora il nome sdrucciolo serve a evocare l’intensità del piacere e del desiderio. I “paccheri” di Mario Esposito vanno gustati uno alla volta perché fanno parte di un coro, ma conservano ciascuno il proprio “tono”, e mentre li gustiamo, ci ricordano che i Napoletani hanno creato anche una filosofia dei maccheroni, e i paccheri hanno un’anima socratica, ci aiutano a pensare, a “sentire”, a capire. Il radicchio, ortaggio ipocalorico, antiossidante, depurativo, venne offerto, con altre erbe, da due vecchi, Filemone e Bauci, che furono i soli ad aprire la porta della loro capanna a Zeus e a Ermes che, non avendo altro da fare, avevano assunto sembianze umane e giravano per la Frigia con il proposito di misurare la generosità e l’ospitalità degli uomini. Ma il sapore energico di una traccia di ricotta di pecora mi ricorda che, se mi distraggo, i paccheri si offendono. E dunque rinvio a una prossima data il racconto della splendida storia dei due vecchi ospitali che Ovidio celebrò nelle “Metamorfosi”.