NAPOLI: UNA CITTÁ NEL PRESEPE

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Simboli e tradizioni si innestano nella rappresentazione natalizia I drammi e le speranze di un popolo Immortalati in diorami e statuine. E la Cantata dei Pastori diventa la sua drammatizzazione. Di Luigi Jovino

Il presepe non è una cartolina o un quadro, né tantomeno un diorama costruito per offrire sensazioni dall’esterno. Il presepe è molto più di una tradizione. È l’essenza stessa di una comunità, in cui ognuno organizza liberamente gli spazi senza l’assillo dei piani regolatori. Nel presepe una cultura popolare si rappresenta. Si immedesima e si ripropone in un ciclico andirivieni. Le scenografie non sono mai brulle: colline di cartapesta, cieli stellati al Bristol nero, fiumi e fontane a motore, muschio, moquette verde e capanne di cartone, neve al polistirolo e giochi di luci intermittenti. Su tutto domina il mistero di una stella cometa.

Le botteghe degli artigiani ripropongono contesti semplici prima dell’avvento dei centri commerciali. Tutto, però, è confuso, come le strade di Napoli, stratificate sulle architetture del vecchio e dell’orrido-moderno. Dio ha scelto di nascere in un presepe perché in esso la gente ricovera i beni rifugio: le atmosfere compiacenti delle vecchie osterie, la bonarietà di un macellaio che dispensa consigli spaccando i quarti di carne, la ruota magica dell’ arrotino. Se Gesù avesse voluto seguire la morale corrente avrebbe scelto senz’altro di nascere in mondovisione.

Nel presepe napoletano la gente è abituata a viverci dentro, scegliendo il senso di una figurazione. Ci sono cantanti, pastori, mercanti, extracomunitari, Di Pietro e Bassolino cui il popolo dedica misere statue di creta, colorate con misture acriliche provenienti dai paesi cinesi. La cultura popolare non usa mezzi termini e si è confusa per secoli nei diorami rappresentativi, costruendoli ad immagine e somiglianza. A Napoli il presepe, insomma, è una pratica sociale viva in cui si mescola passato e presente per dare credibilità al senso dell’immortalità, fiorito da una mangiatoia. Nel periodo natalizio dalla fine del 1600 in poi è usanza rappresentare “La cantata dei pastori”, una drammone popolare scritto dall’abate Andrea Perrucci in sestine, a rima alternata e baciata.

La cantata dei pastori, in tre atti, prologo e scena della Natività racconta del tentativo attuato dai diavoli (Belzebù, Astarrotte, Pluto, Belfagor) di impedire la nascita del Redentore. La scena si svolge in un clima agreste ed ovattato, dove i pastori Armenzio, Benino, Cidonio e Ruscellio recitano elegie, accompagnando il faticoso peregrinare di Maria e Giuseppe in fuga da Gerusalemme per eludere le persecuzioni di Erode. Pagine di vera poesia vengono narrate nelle scene di una pesca miracolosa o della tempesta, scatenata ad arte da Belzebù per impedire che Maria e Giuseppe vengano traghettati alla riva opposta di un fiume. La recita si apre con il vecchio pastore Armenzio che cerca di svegliare il giovane figlio Benino per accompagnarlo al duro lavoro del “governo degli armenti”.

Nei presepi napoletani, infatti, non manca mai la statuina di un giovane addormentato vicino ad un fascio di paglia cui la tradizione popolare ha cambiato il nome da Benino a Benito (evidentemente la mutazione è avvenuta nel periodo del Fascismo, per somiglianza fonetica ma non per emulazione). Il piatto forte della Cantata dei pastori, però, è rappresentato da due personaggi: Razzullo e Sarchiapone che a differenza degli altri recitano in un napoletano antico ricco di termini andati in disuso. Razzullo di lavoro fa la scrivano, indossa abiti con almeno due taglie in meno, è un po’ meschino ed è sempre alla ricerca di qualcosa da mangiare.

Sembra che questa figura abbia ispirato il celebre drammaturgo Eduardo Scarpetta, padre naturale di Eduardo De Filippo che nelle sue riuscitissime commedie ha creato il personaggio di “Felice Sciosciammocca”, preso poi come riferimento da Charlie Chaplin per lanciare la maschera di “Charlotte”.

Sarchiapone, invece, è un barbiere in fuga per sfuggire ad una condanna. Conosce solo termini dialettali ed è un po’ “scemo del paese”. Nei presepi napoletani è rappresentato con andatura goffa o addirittura a torso nudo. I due nella Cantata dei pastori recitano sempre in coppia e diventano il reale bersaglio delle malefatte dei diavoli che cercano in tutti i modi di fermare la nascita di Gesù Redentore. Tutti i personaggi della Cantata dei pastori sono entrati di diritto a far parte del vero presepe napoletano in cui non devono mancare mai Benino, Sarchiapone, Razzullo, Cidonio (il cacciatore), Ruscellio (il pescatore) e l’oste. Il presepe è stato aggiornato ed è diventato emblema di massa nel 1700, all’epoca dei Borboni, ma per essere degnamente rappresentativo dell’anima di Napoli deve sintetizzarne sensazioni sentite e riconosciute.

Tra le numerose drammatizzazioni popolari (ricostruzioni storiche o riti cristiani), nessuna meglio della “Cantata dei pastori” riassume l’essenza di una cultura di fronte al miracolo della vita e nel suo complicato dualismo di nascita e morte. Innanzitutto c’è la totalità della comunità che si mette in gioco. Nelle varie edizioni della Cantata dei pastori, infatti, hanno recitato generazioni di napoletani. Già un anno dopo la pubblicazione del libretto in ogni teatro di Napoli la vigilia di Natale si sospendevano le repliche delle commedie e anche delle sceneggiate per dare spazio alla Cantata dei pastori, recitata da filodrammatiche popolari. Si racconta di un mitico “Totonno e’ Cangiano”, di professione scaricatore di porto che nei panni di Belfagor faceva faville.

E nei paesini tutti i nuclei familiari restavano, almeno per una volta nella vita, coinvolti. Non è una cosa facile recitare sestine “Dantesche”, in un ambiente teatrale con scene, trucchi ed effetti speciali. Ed è ancora più complicato farlo una volta e mai più. Nella Cantata dei pastori, insomma, ci sono entrati quasi tutti e si raccontano storie e leggende su rappresentazioni rimaste epiche. È opinione corrente, infatti, che tutti quelli che hanno interpretato i diavoli abbiano poi avuto morti violente e problemi esistenziali. Alcune morti accidentali accadute negli ultimi anni sembrano confermare questa tendenza. Diversi compaesani, poi, hanno conservato a vita il nome del personaggio interpretato e sono riconosciuti dalla comunità semplicemente come Sarchiapone, Armezio e Benino. Ancora oggi ci sono gruppi di giovani che cercano di tenere alta la tradizione.

A settembre inoltrato iniziano le prove ed il successo è assicurato. Per tutti i giorni delle festività natalizie alle repliche della Cantata dei pastori c’è sempre il pienone e non si trova un posto libero neanche a pagarlo oro. Oramai la maggior parte delle persone conosce a memoria i testi, ma segue l’evolversi del dramma tra risate a squarciagola e lacrime agli occhi. Una sequela di tante coincidenze non può essere casuale.
(Fonte foto: turismocampano.it)

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