Mestieri in Ottajano tra ‘700 e ‘800: vammane, cucchieri, casadduogli e ugliarari…..

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La necessità delle amministrazioni ottajanesi di controllare e di aggiornare senza sosta l’elenco dei contribuenti, dei tributi e dello smisurato numero di beni  di Chiese e Congreghe ha fatto sì che ci siano giunti dettagliati rapporti sugli abitanti di Ottajano ( fino al 1890, anche di San Giuseppe e di Terzigno) tra il primo Settecento e il primo Novecento, sui loro “mestieri” e sulla toponomastica. Sono documenti preziosi che vanno pubblicati integralmente.

 

Tra gli ultimi venti anni del ‘700 e i primi 30 anni dell’Ottocento il patrimonio di non pochi “notabili” appare oppresso dai “pesi”, mentre quello di molti “meccanici” cresce vigoroso. Giovanni Ammendola di San Lorenzo, fratello del massaro Angelo, è “bardaro”, costruisce e ripara selle collari, cavezze, morsi, briglie, sottopancia, e ogni altro finimento (“e guarnèmienti”) per i cavalli, gli asini e i muli che devono “tirare” carrozze, calessi e carri. A Ottajano nel 1808 ce ne sono undici: il lavoro viene garantito dai numerosi “vatecari” (vatigali) che trasportano vino, “erbe” e legumi da Ottajano al Vallo di Lauro, dai “trainieri” e dai “cucchieri” che guidano i carri e le “carrozzelle” lungo le vie delle città: “vatigali” di muli sono Alessio Cozzolino e i suoi figli, che abitano ai Cozzolini, Filippo Del Giudice di Piazza San Giovanni e Aniello Iovino della Maveta. Il “cucchiere” Giovanni Cutolo abita al Vallone del Rosario, in una vasta “massaria” che divide con il cugino Mario Cutolo, proprietario di una taverna al “Padiglione”, dove ora c’è la Clinica Trusso: la taverna e le terre al Vallone delle Fontanelle gli garantiscono nel 1795 e nel 1807 una rendita netta di almeno 150 ducati, che gli consente di mandare a scuola il figlio Ottavio. Nel primo libro che ho dedicato alla storia di Ottajano – era il 1993 – scrissi che “attendeva agli studi” anche Arcangelo, il figlio di Tommaso Sodano, “maestro barbiero al Ciciariello”, mentre il fratello Antonio era panettiere, l’altro fratello, Giovanni, era “sartore” e il più giovane dei fratelli, Gaetano, lavorava nella bottega di Giuseppe Raniero, “casadduoglio”, venditore di salumi e di “baccalari” poco lontano dal Monastero del Carmine. Ricerche successive mi hanno detto che i soldi li procurava non il “barbiero” Tommaso Sodano, ma la moglie, Giulia Menzione, che era “vammana” (o “mammana), e cioè levatrice e ostetrica: una caratteristica di questo mestiere – c’erano “vammane” a Ottaviano ancora negli anni ’60 del ‘900 – era il correre di casa in casa, di giorno e di notte, per assistere le donne incinte e per aiutare le partorienti a dare alla luce i figli. E giustamente Francesco D’Ascoli cita nel libro “C’era una volta Napoli” un’anonima canzonetta in cui si descrive il lavoro stressante della “mammana”: “Non c’è n’ora. No momento/ che può schitto resciatà/ neve, tronola, acqua e bbiento, / nun c’è mai pe mme piatà, /curre, arranca, afferra, acchiappa, /suse, lassa, piglia, scappa”.  Al tema anche Di Giacomo dedicò un sonetto- “ ‘a vammana ‘’e pressa”- e Luigi Comencini riservò scene significative in uno splendido film del 1953, “Pane, amore e fantasia”. Nel 1810 a Ottajano c’erano sei “mammane” (non entrano nel numero quelle di San Giuseppe e di Terzigno). L’”ugliararo” andava a vendere l’olio al minuto alle famiglie che abitavano nei luoghi lontani dal centro di Ottajano: alcuni – Lorenzo Cristofaro e Giovanni Sepe- dichiaravano alle autorità di vendere solo olio per la cucina, altri – i membri della famiglia Perillo – vendevano anche l’olio per l’illuminazione: quest’olio particolare, prodotto anche dai principi di Ottajano negli uliveti del luogo che non a caso era chiamato “’o Paraviso” – e ancora così si chiama – nel 1821 venne liberato dal peso del dazio da un decreto di Luigi de’Medici, e un politico maligno disse che il Cavaliere aveva cancellato il dazio per favorire suo fratello Giuseppe III Medici, produttore di olio di prima qualità negli oliveti di Ottajano e di Terzigno. Ottajano fino al 1860 produsse quantità notevoli di olio, che veniva venduto anche a Napoli: forse vendeva olio ottajanese l’“ugliarara” “della Sellaria” che faceva impazzire Ferdinando Russo: “ ‘A principala ! Ma che cosa rara! ‘O marito è nu piezzo ‘artigliaria / Nu piezzo, ca si sulo ‘o guarde, spara! Ma essa… è na muntagna ‘e simpatia! Se tira ‘a gente appriesso cu ‘a vurpara.”. Il termine “casadduoglio” l’ho trovato solo nel documento del 1812 in cui è citato Giuseppe Raniero: ma questo basta per dimostrare che il termine non è stato creato dai Napoletani dopo l’arrivo degli alleati alla fine della II guerra mondiale, come ho letto da qualche parte. La parola è la versione napoletana di “casa dell’olio” o di “cacio ed olio”: e il mestiere viene descritto con grande precisione nella “Quadriglia de li casadduoglie a Re Carlo”: solo il casadduoglio vende “ doie provole famose, quattro arenghe, no poco di sarmone, no poco de tonnina e tarantiello, quattro alice salate, no carro e lardo, de presotta e boccolare, caso, casecavalle, e trezze e mozzarelle.”