Le ricette “vesuviane” di Biagio. Pasta, pesielle e lardiciello int’ ‘a scafarèa. Ricordando a qualcuno che i sinonimi non esistono.  

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"V. Irolli, Porta Capuana"

 

Un piatto comune diventa particolare grazie al “lardiciello” e alla “scafarea”. L’ intraducibile nome napoletano di un recipiente di creta ha ispirato un cinico proverbio. I sinonimi esistono, o sono una invenzione per riempire di esercizi i libri di testo in uso nelle scuole?

 Vennere ‘a scafarea pe’ ssicchietiello.

Ingredienti: gr. 500 di tubetti rigati; gr. 700 di piselli; gr. 100 di pancetta; gr.50 di burro; gr. 100 di lardiciello; 3 uova; mezza cipolla; un po’ di vino bianco vesuviano; provolone del monaco grattugiato; olio, pepe e sale.

Serve poi una scafarea, che è una zuppiera di creta a forma di cono tronco svasato verso l’alto, con le pareti rigate da solchi.

Non appena la cipolla si è rosolata nel burro e nell’olio, versate i dadini di pancetta e i piselli, “allungate”, di tanto in tanto, con l’acqua, aggiungete sale e pepe: la cottura, a fuoco lento, durerà una ventina di minuti. Controllate che il “composto” sia sufficientemente diluito, fate bollire, calate i tubetti rigati, mescolate con movimenti regolari e lenti, aggiungete  il “sorso” di vino bianco, e a metà cottura versate la “miscela” di uova sbattute, di pepe e di provolone grattugiato; dopo altri cinque minuti di cottura calate il tutto dalla pentola nella scafarea il cui fondo  avete già provveduto a coprire con le fettine di lardiciello, sottili come veli. Aspettate che pasta e piselli si sistemino nella cavità a “riposare” e ad amalgamarsi: infine, portate in tavola e riempite i piatti. Un’antica tradizione contadina vuole che al lardo si accompagni sempre il vino bianco: noi abbiamo usato in cucina e bevuto a tavola il coda di volpe del Vesuvio.

Biagio Ferrara

E’ un piatto popolare, carico di storia e, come si dice, dei sapori di una volta. Il “lardiciello” usato da Biagio l’ha preparato un beccaio di Palma, attingendolo dalla gola di un maiale che è stato allevato secondo la tradizione, nell’orto di casa. E secondo tradizione il beccaio ha lavorato  anche il “lardiciello”, profumandolo con le erbe e con gocce di vino bianco. Ma il segreto sta nella “scafarèa”, in questo prodigio dell’artigianato campano, erede diretto del “bucchero nero” che veniva plasmato dai vasai di Nola e di Sarno, abilissimi nell’impastare e nel consolidare la terra nera e molle delle paludi:  tra Pompei e Nola c’erano decine di officine che “sfornavano”  le nere stoviglie dei poveri.

La “scafarea” svolge un ruolo fondamentale nel rendere particolare questa piatto che nella sua struttura è banalmente comune: la forma e il materiale della zuppiera, rallentando il raffreddamento, permettono ai sapori principali – l’uovo, “il lardiciello” e la pancetta – di diffondersi tra la pasta e i piselli con uguale intensità, e  al calore di non disperdersi interamente: alla fine, la “minestra” ha una sensibile coesione , che però non annulla nessuna delle “note” essenziali. Una corposa agilità.

Mi chiedono il significato del proverbio napoletano che ho citato ad alta voce, quando ho visto la scafarèa.   Talvolta i genitori della promessa sposa nel garantire al promesso sposo che la loro figlia era ancora vergine e del tutto illibata mentivano: poiché  “l’origine del mondo” della ragazza non era più un piccolo e intatto recipiente , ‘ nu sicchietiello, ma dall’uso piacevole era stata già trasformata in un vasto vaso, in una “scafarèa”. La discussione si concentra sulla ricerca di qualche parola italiana che possa tradurre convenientemente “scafarèa”. Il termine “sinonimo” accende la memoria di uno dei ragazzi, che chiede alla madre di aiutarlo a svolgere un difficile esercizio “ di grammatica”: si tratta di trovare i sinonimi delle parole indicate dal libro. “ Ma i sinonimi non esistono – gli dico, provocatoriamente (la provocazione è un effetto del lardo) -,  ti hanno assegnato un esercizio non solo inutile, ma anche dannoso, protesta con il tuo insegnante”. La madre del ragazzo, che pure insegna italiano alle medie, interviene immediatamente a difesa dei libri di testo e del collega, e intima al figlio: “ Non permetterti…Il signore scherza: dovremmo fare ogni giorno dieci esercizi sui sinonimi, così si arricchirebbe il nostro vocabolario”. Sfidato a duello, mi limito a ricordare alla signora docente che la legge fondamentale che governa dai giorni di Adamo ed Eva ogni sistema linguistico è l’economicità: se capita che i campi semantici, e cioè la somma di tutte le accezioni,  di due parole siano perfettamente coincidenti, una delle due parole verrà condannata a scomparire dall’uso.

La signora va  a prendere il primo dei tre volumi del “Grande dizionario italiano dei sinonimi e dei contrari”, curato da Tullio De Mauro e pubblicato dalla Utet,  me lo porge, e “ Lo conosce?” mi domanda con un sorriso. Io, reso bugiardo dai piselli e dalla pancetta, le dico di no. Poi sfoglio, fingendo meraviglia, e, scelta a caso la parola  “campare”, leggo ad alta voce alcuni sinonimi: sopravvivere, sbarcare il lunario, arrabattarsi, arrangiarsi. “ Le sarà facile –  dico alla signora –  arrivare alla conclusione che i campi semantici di tutti questi presunti sinonimi non sono perfettamente coincidenti: ognuno di essi ha un suo spazio, anche ampio, di originalità. Dopo questa splendida pasta e piselli, sarebbe inopportuno parlare di Rudolf Carnap, di Ernst Cassirer, di Eco, dell’ermeneutica  e di Remo Bodei. Ma a pag 12 dell’ Introduzione, lo stesso Tullio De Mauro, che ha ideato e diretto il progetto di questo Dizionario, le dà la risposta che risolve il problema.  Diciamo sinonime – scrive De Mauro – due parole o, anche, due locuzioni, quando si accerti che almeno una accezione sia comune ad entrambe, sì da renderle interscambiabili non occasionalmente. Ha sentito? Non tutte le accezioni: almeno una. Insomma, fingiamo che le due parole siano dei sinonimi”.

E’ come  fingere che una  scafarea  sia nu sicchietiello….

L’OFFICINA DEI SENSI

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