Homo photographicus.  Perché sui “social”  non  “girano” “selfie”  di  sindaci e assessori che spalano la neve?

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All’inizio la fotografia costrinse i filosofi a rivedere i modelli della percezione visiva e il sistema delle relazioni tra soggetto e oggetto; oggi i cellulari e la mania del fotografare e del “postare” senza sosta ci allontanano dalla realtà e ci condannano all’individualismo narcisista. I “selfie” degli amministratori locali durante gli incendi vesuviani e nelle nevicate di questi giorni.

 

L’invenzione della fotografia non solo modificò la storia dell’arte, costringendo le Avanguardie a cercare, per la pittura, nuovi spazi e nuovi orizzonti, ma spinse anche i filosofi e gli studiosi di psicologia a riflettere sulla natura della percezione visiva. E’ merito anche della fotografia se l’ermeneutica ha potuto sostenere e dimostrare che i nostri occhi vedono non quello che c’è, ma quello che hanno deciso di vedere, e che ogni nostro giudizio è un pregiudizio. La fotografia classica, quella scattata dal fotografo cacciatore di immagini che dicessero qualcosa di particolare alla sua sensibilità, conservò a lungo quella che Claudio Marra chiama la ybris della fotografia, la sua “empia” capacità di presentarsi come una divinità demiurgica: riprodurre le apparenze del mondo visibile in immagini che sono esse stesse “apparenze” ricreate, pensate e caricate di significato dall’uomo. In questo paradosso sta il fascino degli scatti “d’epoca”, delle fotografie storiche e di quelle del nostro passato: e fino a che punto questo fascino possa essere ancora oggi un incantesimo è dimostrato ampiamente dalle fotografie che pubblicano sui “social” due miei amici, Antonio Cangiano e Marco D’ Antonio. Essi riescono ad essere artisti “classici” in un’epoca in cui i cellulari e gli smartphone hanno trasformato la fotografia in una pratica di massa: tutto viene fotografato, momento per momento, senza sostanziali motivazioni, ma solo perché il “fotografo” si illude di conquistare attraverso l’alluvione di immagini scaricate sui siti e sulle “bacheche” un momento di celebrità, un flusso di “mi piace”. Ma è l’illusione di un attimo, poiché ogni “scatto” annega nel fiume di “scatti” che implacabile e senza sosta scorre nei canali dei “social” annullando radicalmente, tra l’altro, ogni distinzione tra vero e falso.

Così la fotografia, che all’inizio obbligava il fotografo a osservare attentamente la realtà, a indagarla, oggi lo allontana da essa, lo isola e lo avviluppa nelle spire dell’individualismo e del narcisismo, lo rende vittima della mania del “selfie”. Era fatale che alle sirene di questa mania cedessero i politici di vario taglio, i sindaci, gli assessori, i consiglieri comunali. Essi hanno valutato, certamente, la misura dei vantaggi e dei rischi che l’uso del mezzo e della tecnica può produrre. I “selfie” possono servire a testimoniare la continuità della presenza degli amministratori locali sul territorio, a dare sicurezza ai cittadini, a confermare la paternità dei provvedimenti adottati nell’interesse della comunità: perché può anche capitare che non ci siano certezze sul nome del sindaco che ha disposto di asfaltare una strada, come è capitato in questi giorni in un Comune del Vesuviano, e che si faccia confusione nell’individuare le Amministrazioni che misero mano, che so, al progetto di metanizzazione o a quello di sistemazione dei parchi nei palazzi storici. Ma i “selfie” possono anche produrre dei danni, o per il numero eccessivo, che genera noia, o per una imprudente impaginazione, che suscita il riso. E niente, soprattutto per un politico locale, è più calamitoso del ridicolo.

Gli “incendi” vesuviani dell’anno scorso favorirono la messa in scena di un vero e proprio festival dei “selfie” di amministratori territoriali di ogni grado e taglio: e forse fu cosa buona e lodevole, perché le fiamme scatenano una paura ancestrale, figuriamoci poi quando il fuoco attacca il Vesuvio: in quella circostanza era giusto che, per rassicurare i cittadini, gli amministratori di ogni grado e taglio si fotografassero e si facessero fotografare, e pubblicassero sui “social” “selfie” e foto che li ritraevano mentre, di giorno e di notte, affrontavano le fiamme voraci con pompe e zappe brandite così come l’Arcangelo Michele brandisce la sua spada sulla testa di Satana e sulle vampe degli Inferi. L’agitazione del momento provocò qualche eccesso, qualche scena parve più teatro che vita vissuta, e il dramma dell’ora venne talvolta svilito dal chiasso dei commenti e dei proclami che accompagnarono la pubblicazione sui “social” di foto e di “.selfie.”  Ma può capitare.

Il fuoco crepita, la neve cade in silenzio.La neve, dalle nostre parti, crea problemi soprattutto alle persone che non frequentano le piazze “virtuali”. Per i frequentatori abituali dei “social” la neve è una sorpresa preziosa, perché consente di fotografare tetti e balconi e giardini e cani e gatti tutti imbiancati, e di modellare pupazzi e fotografarli, e di lamentarsi per le scuole chiuse, e per i ragazzi che restano a casa, oppure di variare lo schema e di distinguersi dalla massa rallegrandosi per le scuole chiuse, e per i ragazzi che potranno giocare con le palle di neve, e un giorno racconteranno l’emozione, così come la raccontano i loro genitori. Una fiumana di foto e di “selfie”.In questi giorni non ho visto “selfie” di amministratori locali che spargevano il sale sulle strade e che spalavano cumuli di neve: hanno intuito che il popolo, quasi tutto, la neve la voleva, a patto che non fosse troppa e non si trasformasse in gelo. Qualche intellettuale ha citato perfino un paio di poesie dedicate all’argomento: uno ha pescato, chi sa da dove, chi sa da dove, un verso di Zanzotto, “ma come ci soffolce, quanta è l’ubertà nivale”, un altro ci ha parlato di Jacques Prèvert, del suo pupazzo di neve che entra in una casa, si siede sulla stufa rovente e si scioglie, d’un tratto; una gentile signora, infine, ha ricamato finissime similitudini tra gli arabeschi di neve e le trame di trine e merletti. Dunque, hanno fatto bene gli amministratori locali a non “selfeggiarsi” mentre spalavano la neve: e poi, nello spalare, non c’è quel tocco epico che invece esalta la figura del domatore delle fiamme: spalare è un gesto prosaico, e un po’ rozzo.

Forse avrebbero potuto “selfeggiarsi” mentre bussavano alle porte dei vecchi e dei malati e chiedevano se avessero bisogno di qualcosa. Ma, a pensarci bene, è meglio che non l’abbiano fatto. Sai quante polemiche sarebbero fioccate, quante maligne accuse di demagogia e di populismo…..