Il testo delle disposizioni impartite da Cialdini agli ufficiali dell’esercito basta da solo a dimostrare che nel 1860 i Piemontesi entrarono nel Regno di Napoli non da liberatori, ma da conquistatori (e da saccheggiatori). Ma il ceto dei “galantuomini” del Regno abbandonò subito i Borbone e giurò fedeltà ai Savoia: fecero lo stesso i comandanti delle truppe napoletane. Tutto questo rivela con chiarezza i limiti e gli errori – soprattutto gli errori di politica sociale- della dinastia, e in particolare, degli ultimi due re.
Il Nord poté saccheggiare Napoli e ridurre il Sud a vivaio di manodopera a basso costo, di emigranti, di carne da macello per i cannoni, perché tra il 1861 e il 1874 la borghesia meridionale firmò la resa incondizionata agli interessi delle èlites settentrionali in cambio dell’assicurazione che i governi dell’Italia unita avrebbero traghettato i “ borbonici “ nel nuovo sistema attraverso la politica pacifica dell’ “ amalgama “, avrebbero impedito il rinnovamento sociale, non avrebbero messo mano alla divisione delle terre, avrebbero legittimato la rapina del demanio pubblico. Questa è la verità, il resto è solo chiacchiera. Chiunque abbia una conoscenza appena appena seria della storia del brigantaggio post-unitario in Lucania, in Puglia, nel Sannio, nell’Irpinia, in Terra di Lavoro, e nelle terre tra Eboli e Lagonegro, sa che il fenomeno ebbe tre radici: la tendenza storica del brigantaggio meridionale a diventare più aggressivo nei momenti di crisi istituzionale; la rivolta di massa contro la coscrizione obbligatoria; la guerra contro i proprietari terrieri, che erano stati “ borbonici “ e poi divennero tutti “ piemontesi “. I liberali del Sud sostennero a spada tratta la repressione manu militari del brigantaggio, che si affannarono a descrivere, sui giornali e nel Parlamento, come espressione della reazione anti-unitaria, ispirata e sostenuta dai Borbone e dal Papa. Sul finire del ’62 furono proprio i liberali meridionali a chiedere il pugno di ferro contro le opposizioni. E quando il Governo decise di chiudere tutti i giornali antigovernativi che si pubblicavano a Napoli, di schedare gli oppositori e di sottoporli a severi controlli di polizia, Silvio Spaventa, che era segretario generale agli Interni, non solo non protestò, ma sostenne apertamente il provvedimento, anche in nome della borghesia liberale, moderatamente liberale, che egli e i suoi consorti rappresentavano.
L’atto con cui il liberalismo meridionale si rese pubblicamente e direttamente responsabile della svendita del Sud fu il sostegno dato alla legge sull’ordine pubblico nelle province meridionali: la legge prese il nome dal relatore, Giuseppe Pica, abruzzese, e venne promulgata dal Re il 15 agosto del ’63, cinquanta giorni dopo che Massari, leggendo alla Camera la relazione della commissione sul brigantaggio, aveva timidamente, e con molti giri di parole, indicato nella povertà dei contadini una delle cause del fenomeno. La risposta del Governo fu solo militare: le bande armate – tre persone già costituivano una banda – sarebbero state giudicate dai tribunali di guerra; i briganti presi con le armi in pugno sarebbero stati fucilati; il governo si attribuiva il potere incontrollato di inviare a domicilio coatto “ oziosi, vagabondi, persone sospette, secondo la designazione del codice penale, manutengoli e camorristi.”. Degno di particolare attenzione è l’art.7 della legge Pica: “ Il Governo del Re avrà facoltà di istituire compagnie o frazioni di compagnie di Volontari a piedi od a cavallo, decretarne i regolamenti, l’uniforme e l’armamento, nominarne gli ufficiali e bassi ufficiali ed ordinarne lo scioglimento. I Volontari avranno dallo Stato la diaria stabilita per i Militi mobilizzati, il Governo però potrà accordare un soprassoldo, il quale sarà a carico dello Stato.” La legge risultò indigesta perfino a un moderato come Francesco De Sanctis: “noi non siamo un governo libero, perché da condizioni anormali siamo tirati sul pendio delle leggi eccezionali, perché nell’esecuzione delle leggi trascorriamo volentieri all’arbitrio”. Quasi tutti i liberali meridionali votarono a favore della legge Pica. Alle amministrazioni locali, tornate saldamente in mano ai “ galantuomini “ ex borbonici -avvocati, medici, sensali e soprattutto proprietari terrieri- fu affidato il compito di indicare i meritevoli di domicilio coatto. Possiamo facilmente immaginare come venissero stilate queste liste. Le proposte venivano “ scrutinate “ dalle Giunte provinciali: quasi sempre con scarsa diligenza, e spesso con una fretta che serviva a coprire intenzioni e interessi assai sporchi. La legge Pica e le Giunte provinciali provocarono, nell’ordine sociale e nel sistema della legalità, inauditi sconquassi, ma, soprattutto, fiaccarono lo spirito dell’opposizione, la fiducia nelle istituzioni, la speranza del cambiamento: spirito, fiducia e speranza che già avevano, di per sé, radici assai deboli.