A metà dell’’800 il vino e lo spirito erano un tesoro per alcuni potenti ottajanesi

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Il nostro giornale sta curando la pubblicazione di un libro dedicato alle masserie e alle “ville” del Vesuviano interno, nelle quali già a metà dell’Ottocento la cultura rustica si apriva ai primi fenomeni della “civiltà della macchina” avviando sostanziali trasformazioni nell’economia e nel sistema sociale. Correda l’articolo l’immagine di un quadro di F.Palizzi.

 

Nel 1848 da uno statino inviato dal Comune di Ottajano le autorità napoletane dedussero che Ottajano era messa in ginocchio dalla povertà e dalla fame: diceva quello statino che in un mese ognuno dei 20000 ottajanesi aveva consumato in tutto 2 kg. di pane e pasta. Il cancelliere comunale, costretto a dare delle spiegazioni, scrisse che la crisi era stata provocata “dalla invendita del vino e dalla cattiva riuscita dei bozzoli da seta: la povera gente era costretta a nutrirsi di patate e vegetabili.”. Nel maggio dello stesso anno il Governo, costretto a contrarre un “prestito forzoso” per comprare armi, chiese a tutti i Comuni notizie dettagliate sui “capitali” messi “ in commercio” da “mercanti, fabbricanti, manufatturieri, sensali, dettaglieri e botteghieri”. Il sindaco di Ottajano comunicò che 130 ottajanesi “avevano in commercio” un capitale compreso tra i 100 ducati di tavernieri e “ dettaglieri di olio e farina” e i 2000 ducati di Basilio Di Prisco, negoziante di cereali. Vincenzo D’Ambrosio, negoziante di cereali e di mele, “muoveva un capitale di 4000 ducati”, e a 5000 ducati ammontavano gli investimenti di Raffaele Saggese, fabbricante e mercante di botti. Il cancelliere Achille Procida fornì all’amico Sottointendente Gennaro Capece Minutolo un’analisi dettagliata del patrimonio degli “industrianti distillatori”, Gaetano Giordano, Nicola e Paolo Pappalardo, gli eredi di Giacomo Boccia, Crescenzo Boccia e Giuseppe Cola. Ciascuno di essi aveva impiantato due macchine per la distillazione, alcune modernissime, come quelle di Giuseppe Cola, che costavano 1000 ducati ciascuna. Gli operai impiegati erano 26, e il loro salario era di un quarto di ducato al giorno, per ogni giorno di effettivo lavoro. Nel 1847 erano state prodotte 600 botti di spirito, per un utile netto “dichiarato” di 3 ducati a botte. Ancora nel 1870 i tecnici della Provincia di Napoli non sapevano con esattezza quale fosse la produzione del vino e dello spirito e dovevano fidarsi delle stime di Girolamo Vitiello, ricco e potente proprietario di vigneti a Terzigno, a Boscotrecase e a Ottajano: egli assegnava alla provincia una produzione complessiva di oltre un  milione di ettolitri. L’anno precedente erano stati esportati dai porti della provincia 13000 ettolitri di vino in botte e 27000 bottiglie, ed erano stati importati 4000 ettolitri in botte e ben 73000 bottiglie. Le famiglie dei “nobili” continuavano a mettere in tavola “etichette” straniere: nel 1830 gli eredi di Luigi de’Medici avevano trovato nella cantina del defunto solo vini “forestieri”, e tra questi 48 bottiglie di Porto, 150 di Stella, 282 di Madera, 30 di Bordeaux, 17 di Sauternes, 41 del Reno di prima qualità, 19 di seconda qualità, 50 di Setubal, 4 di Costanza, 2 di Tokay, 13 di Alicante: eppure i Medici erano i più grandi produttori di vini vesuviani. Ma fu proprio Giuseppe IV Medici, nipote e erede del Cavalier Luigi, ad avviare la campagna di “immegliamento” dei vini del Vesuvio e a capire, prima di Giuseppe Froio, che i bianchi del Vesuvio e di Ischia, e i moscati di Posillipo e di Pozzuoli, se fossero stati “perfezionati”, avrebbero sottratto il mercato interno al dominio dei vini “forestieri”, soprattutto francesi. Mentre le botti costruite nel Vesuviano non temevano confronti, le bottiglie prodotte da Giuseppe Bruno a San Giorgio a Cremano, da Antonio Russo a Resina e da Carlo Cappello a San Giovanni a Teduccio, quando, dopo l’Unità d’Italia, il protezionismo borbonico venne sostituito dal liberismo radicale, vennero sostituite in quote importanti del mercato dalle bottiglie francesi e inglesi. Ma anche in questo settore partì l’“immegliamento”: lo dimostrano i successi della vetreria che gli Scudieri fondarono a Ottajano. Nel 1865 vendevano vino gli ottajanesi Antonio Cutolo, al Vaglio; Nicola Lanza, Michele Giordano, Francesco Pisanti, Francesco Antonio Pascale e Giuseppe Cutolo, alla Taverna del Passo; Tobia d’Ambrosio al Rosario; Angelo Cutolo, a Piediterra; Luigi Saviano, a San Lorenzo; Aniello Saviano, alla Toppa; Felice Carbone, ai Prischi. I “liquoristi” erano 11. Quattro venditori di vino, Nicola Lanza, Michele Giordano, Angelo Cutolo e Felice Carbone, e 2 “liquoristi”, Michele Perillo e Pasquale Liguori, rifornivano con spedizioni settimanali anche clienti di Napoli, di Palma e di Lauro, e si servivano, per il trasporto, degli attrezzati “traini” di Giovanni Ragosta e di Michele Aprile.