SE UN 16ENNE MUORE SPARATO LA COLPA É TUTTA DELLA FAMIGLIA

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    Il caso del 16enne ucciso durante una rapina fa capire che non si può essere permissivi in un territorio marcio come il nostro. È guasta la famiglia, ma anche la politica, che non si fa carico dei problemi. Di Amato Lamberti

    Un ragazzo di sedici anni è morto ammazzato, a Qualiano, uno dei tanti paesoni “scarrupati” dell’hinterland napoletano, mentre tentava di portare a termine, in compagnia di un giovane di ventiquattro anni, un tentativo maldestro di rapina ad un supermercato. Al di là di ogni altra considerazione, vorrei fare qualche riflessione sui seguenti fatti: si trattava di un ragazzo di sedici anni che: aveva lasciato la scuola, frequentata senza profitto; non aveva ancora cominciato a lavorare; frequentava, da poco, brutte compagnie, come dicono genitori e amici.

    Quante volte è già accaduta una simile tragedia? Il quotidiano “Il Mattino”, del 31 gennaio 2011, fa un elenco, purtroppo lungo, degli episodi più clamorosi negli ultimi anni. Hanno tutti le stesse caratteristiche: non hanno terminato il percorso scolastico; non lavorano e bivaccano per la strada; frequentano le cattive compagnie della street corner society, come direbbe Cohen. Mi chiedo, ma di chi è la colpa se non andavano più a scuola? Di chi è la colpa se frequentavano cattive compagnie? Di chi è la colpa se in assenza di una scuola si trovano buttati per la strada senza che qualcuno gli offra una opportunità di lavoro, di apprendistato, di formazione professionale?

    Certo, la scuola ha tante colpe perché non sa motivare e neppure trattenere nella scuola i ragazzi difficili. Riesce ad ottenere qualche risultato solo con ragazzi che arrivano a scuola già scolarizzati e a casa sono seguiti e sostenuti dalle famiglie Certo, la famiglia ha colpe perché troppo spesso non è più in grado di orientare, seguire, prendersi cura dei figli. Mi ha molto colpito il fatto che la madre del ragazzo ucciso gli aveva trovato in tasca, nei giorni precedenti, 400 euro e si era accontentata della spiegazione incredibile fornita dal ragazzo –sono di un mio amico che li ha vinti giocando a videopoker-, invece di farsi afferrare per pazza facendo accorrere tutto il vicinato; invece di massacrarlo di botte, come sbagliando magari si sarebbe fatto in altri tempi; invece di chiedere aiuto a qualcuno, magari al parroco, per cercare di salvare il ragazzo dalla strada criminale intrapresa.

    Indifferenza o complicità? Non saprei cosa rispondere, ma la madre è sicuramente colpevole della morte del figlio, e lo stesso vale per il padre e gli altri membri della famiglia. Tutti colpevoli. Il disinteresse, la noncuranza, la mancata assunzione di responsabilità da parte della famiglia, hanno ucciso il ragazzo. Non si può essere buonisti, permissivi, in un territorio marcio come quello di Napoli se si amano veramente i figli. Ma è innanzitutto la società che deve prendersi cura dei suoi ragazzi. Offrirgli luoghi di ricovero sicuri, farsi carico delle loro debolezze, dargli opportunità di crescita, di vita, di pratiche sane.

    Questi sono i figli malati di una società malata, dove non sono neppure più ben chiari i confini tra ciò che è bene e ciò che è male. In una società che si occupa dei suoi figli, in particolare di quelli più disgraziati, la politica deve farsi carico dei problemi di inserimento dei soggetti più deboli, quelli che hanno bisogno di aiuto, di formazione professionale, di inserimento produttivo, ma anche di assistenza e di accompagnamento.

    In tutta Europa si provvede a queste necessità con il reddito minimo vitale, con i lavori socialmente utili, con gli alloggi sociali. Solo in Italia questi meccanismi sono utilizzati in maniera distorta, non producono risultati e generano solo sacche di assistenza parassitaria. In Francia, in Belgio, in Olanda, in Norvegia, i lavori socialmente utili sono utilizzati per venire incontro alla esigenza di poter contare su un reddito minimo quando non si ha un lavoro e lo si sta cercando, come avviene per i giovani che hanno terminato gli studi, per l’immigrato che è appena arrivato in terra straniera, per la donna in cerca di autonomia economica. Sono perciò temporanei: tre mesi, massimo sei mesi, il tempo di trovare un lavoro stabile o part time. Anche gli alloggi sociali servono a risolvere problemi di difficoltà momentanea.

    La città di Parigi dispone di circa 50.000 logement sociaux. Il meccanismo è semplice. Chi vuole costruire deve dare alla municipalità un appartamento di 50 metri quadri ogni dieci appartamenti costruiti. Sono utilizzati per anziani soli e abbandonati, per giovani coppie, per immigrati, per donne sole, per persone a vario titolo in condizioni di difficoltà permanente o momentanea. Un’altra civiltà. Tanto per fare un esempio: un giovane che non vuole più vivere in famiglia, si rivolge alla municipalità, viene aiutato a trovarsi un lavoro e nel frattempo gli si dà un alloggio sociale e un lavoro socialmente utile. Se ha bisogno di formazione professionale gli viene data l’opportunità di seguire dei corsi professionalizzanti.

    Non è buttato per la strada e costretto ad arrangiarsi, ma viene aiutato e sostenuto fino all’inserimento lavorativo che in tre mesi o sei mesi si realizza. Lo stesso vale per l’extracomunitario altrimenti condannato alla clandestinità. Un’altra civiltà, dove la politica è al servizio della collettività.
    (Fonte foto: Rete Internet)

    CITTÀ AL SETACCIO