Una laurea in lingue ed una forte passione per l’insegnamento. Quella di Claudia è un po’ la storia di tanti giovani italiani, per i quali il precariato diventa spesso un ostacolo nella propria realizzazione professionale.
Un’aspirazione, un sogno, in alcuni casi un miraggio. Anni ed anni di sacrifici nella speranza di un posto fisso che forse non arriverà mai. Sì perchè in Italia la nuova dimensione del lavoro si chiama “precariato”. Una sorta di status symbol che accomuna centinaia di giovani laureati, più che mai quelli che intraprendono la carriera di insegnante.
“La prima sostituzione annuale mi è sembrata un punto d’arrivo”, racconta Chiara accennando un sorriso, quasi a smorzare la rabbia per una condizione lavorativa che continua a non appagarla in pieno. Eppure lei di strada ne ha fatta tanta. Dopo la laurea in lingue, ha iniziato “a far punteggio”, facendo la spola tra le scuole private campane.
“A volte mi alzavo all’alba, perchè gli istituti scolastici in cui ero riuscita a prestare servizio, si trovavano a più di un’ora di macchina da casa mia, ma la cosa non mi spaventava”. Chiara è una giovane trentenne nolana, tenace e pronta a tutto per realizzare il proprio sogno.
“Sapevo che quella era la strada per poter esercitare un giorno quello che per me più che una professione rappresenta una vocazione”,continua, e dal tono di voce trapela l’entusiasmo che nonostante tutto continua ad animarla.
“Non mi importava neppure di non essere pagata, aggiunge, sacrificavo i miei week end lavorando come cameriera in un ristorante della mia zona, ma i soldi che spendevo mi bastavano a malapena per coprire le spese di benzina ed autostrada”.
Anni ed anni di sacrifici, dunque. In che modo hai continuato il tuo percorso di “aspirante insegnate”?
“Raggiungendo poco alla volta le tappe che avrebbero dovuto condurmi ad un traguardo che per ora resta ancora una chimera. Purtroppo sono un’insegnante di terza fascia, una di quelle che non essendo abilitata si accontentava anche delle briciole pur di lavorare. E così alla prima sostituzione di trenta giorni ho fatto una valigia e sono partita per Vercelli, dove mi attendeva una classe di primo liceo linguistico. Insegnavo inglese e francese, e devo dire che nonostante la particolare vivacità degli alunni me la sono cavata discretamente. Ero in un posto nuovo, lontana chilometri da casa, ma la scuola ha la potenzialità di diventare come una famiglia per un insegnante. I colleghi ti sostengono, quelli più maturi ti danno consigli preziosi, quasi ti tengono sotto la propria ala, rivivendo attraverso la tua esperienza i primordi della propria carriera. Per non parlare degli alunni. Dopo una settimana, ci si diventa quasi amici. Certo bisogna sempre mantenere il rispetto dei ruoli, ma la scuola è anche una maestra di vita, e data la mia giovane età, spesso diventavo anche la spalla forte di adolescenti di cui pur con fatica ero riuscita a guadagnarmi la fiducia”.
Un’esperienza di crescita personale oltre che personale, ma come si vive poi la fase di stand by, in attesa di un’eventuale nuovo incarico?
“Quella è la fase peggiore. Inizi a pensarci già quando si avvicina la data di scadenza del contratto. E’ come quando la radio in auto trasmette la tua canzone preferita, ma tu sei arrivata a destinazione e devi scendere. Sul più bello abbandoni. Dentro ti porti l’unicità di un’esperienza che ti segnerà anche in futuro, ma l’ansia di sapere se riuscirai a lavorare ancora rovina un po’ anche i ricordi.
A me è andata discretamente bene. Dopo quella sostituzione ho lavorato con continuità per più di un anno. Ma ogni volta a giugno vivo momenti di angoscia per il timore che quella appena conclusasi possa rappresentare la mia ultima esperienza. Uno stato d’animo che mi accompagna anche per i mesi successivi. L’insicurezza, il dubbio sul proprio futuro lavorativo è qualcosa che incide non poco anche sulla propria crescita professionale”.
In che senso?
“In pratica ti senti un insegnante a metà, o forse a scadenza. E questo condiziona anche le scelte successive. Magari valuti la possibilità di frequentare un corso di aggiornamento, ma poi ti chiedi se valga davvero la pena spender soldi per svolgere un lavoro che non sai se un giorno sarà mai veramente tuo”.
Hai mai pensato di mollar tutto e fare altro?
“L’idea mi ha sfiorato, ma l’ho abbandonata sul nascere, ogniqualvolta, dando anche solo delle semplici ripetizioni, a fine anno genitori e alunni si congratulano con me per i miglioramenti ottenuti. Questa per me è un po’ la prova del nove, la conferma di aver scelto giusto. Una sorta di sfida con me stessa, o forse semplicemente una salita impervia che non mi stancherò mai di percorrere”.
(>Fonte foto: Rete internet)