Pedro Almodovar torna con un film particolare, che racconta la storia di un chirurgo plastico pronto a tutto per placare il proprio dolore. Il regista spagnolo confeziona un”opera che racconta la follia attraverso uno stile asciutto e lineare.
La piel que abito è destinato ad occupare un posto speciale nella filmografia di Pedro Almodovar. Perché tanto almodovariano è nella trama, quanto freddo e distaccato nella resa formale. Il regista spagnolo ci ha abituato, negli anni, ad una regia e a delle trovate oltre l’ordinario.
In particolare la sua prima parte di carriera (fino a Donne sull’orlo di una crisi di nervi), ma anche tutti i suoi film successivi, sono marchiati da personaggi, situazioni e scelte di stile volutamente esagerate, alla ricerca di quel kitsch consapevole e mai stonato che è diventato un segno di riconoscimento. L’esagerazione è stata per lui la chiave del successo, accanto alla straordinaria capacità di sondare con ironia e intelligenza l’animo delle donne, la forza delle persone ai margini della società , il valore vitale del ricordo. Con questa sua ultima fatica sembra che Almodovar abbia voluto tentare un esperimento: provare a raccontare la follia con uno stile più asciutto.
E la storia, questo va sottolineato, è folle abbastanza. Senza addentrarci troppo nei meandri del racconto – che ha la caratteristica di svelarsi piano piano ai nostri occhi come un puzzle – si può anticipare che le vicende ruotano attorno ad un chirurgo plastico introverso e impassibile (un Antonio Banderas leggermente fuori ruolo), sconvolto dalla perdita della moglie e della figlia e deciso ad osare con la scienza per trovare la “pelle” artificiale perfetta. Il mix tra esperimenti chirurgici, morte, vendetta e perversione porterà ad una storia piena di eccessi. Tuttavia – e questa è la novità – la regia (con tutto quello che comporta in termini di composizione delle inquadrature, direzione degli attori e scelte stilistiche e di montaggio) è paradossalmente sobria.
Abbondano i silenzi, con la scelta di inquadrature che giocano sulla simmetria e l’ordine piuttosto che sulla sovrabbondanza. Il tono è lineare; se Almodovar ci aveva abituato ad inserire, anche nei suoi film più drammatici, elementi grotteschi capaci di spezzare il ritmo, La piel que habito è al contrario monocorde, gioca con il linguaggio del thriller senza concedersi divagazioni in altri generi. Anche i personaggi e le situazioni – pur inserendosi in un contesto “esagerato” – sono come sterilizzati, raggelati. L’incursione di un uomo vestito da tigre nella casa del chirurgo e un finale che inserisce un momento di ilarità nel pieno del dramma sono tra i pochi momenti sopra le righe.
Al di là della forma, attraverso questo film Almodovar sceglie di parlare di un tema che conosce benissimo: l’ossessione. La struttura ad incastro – che spinge a chiedersi come si è arrivati al punto che vediamo sullo schermo – non distrae dall’immedesimazione in un comportamento anormale e ostinato, quello del chirurgo, che scandisce con i suoi piccoli gesti l’intero film. Come spesso succede con il regista spagnolo, la follia, la volontà di agire fuori dalle norme sociali o etiche, è un elemento naturale pronto ad esplodere al primo evento avverso.
Nel mondo di Almodovar – ed è il suo grande fascino – è “normale” che un chirurgo plastico famoso e rispettato decida di sperimentare con il corpo umano, spingendosi oltre i limiti della professione e della morale. Non ci sono raffinati percorsi psicologici da seguire; il dolore e l’ossessione sono sufficienti a spiegare la radice dell’anomalia. La piel que habito non è probabilmente il miglior film di Almodovar, ma ci dice delle cose interessanti sullo stato creativo dell’ex ragazzo prodigio del cinema spagnolo. Soprattutto, ci fa capire come ci troviamo di fronte ad un regista che, dopo anni, non ha perso la voglia di raccontare il suo mondo cercando nuovi linguaggi.
E il risultato è un film stilisticamente impeccabile, morboso perché tutto quello che succede è il frutto di una lucida volontà di trasformare la realtà e placare il dolore. Almodovar – e questo forse è il merito principale dell’opera – ha costruito un film funzionale al suo vero protagonista, la chirurgia plastica: attraverso gesti rigorosi e precisi, l’ossessione – lucida e folle insieme – ha il potere di trasformare la realtà .
(Fonte foto: Rete Internet)
Regia di Pedro Almodovar, con Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes
Durata: 120 minuti
Uscita nelle sale: 23 settembre 2011
Voto 7/10

