Il museo partenopeo ospita una mostra che ripercorre la carriera dell”artista di Rovereto attraverso i suoi lavori più significativi
La prima personale di Fausto Melotti si tenne alla galleria Il Milione, a Milano. Il catalogo della mostra, in cui erano presentate al pubblico diciotto sculture, “tutte del 1934 in gesso e metallo verniciato e cromato”, era corredato da un testo che significativamente individuava i cardini di una personalità artistica eccentrica e fuori dal comune, animata da un’originalissima considerazione dell’arte che, secondo l’artista di Rovereto, classe 1901, “è stato d’animo angelico, geometrico. Essa si rivolge all’intelletto, non ai sensi. Per questo è priva di importanza la pennellata in pittura, e in scultura la modellazione.
Non la modellazione ha importanza ma la modulazione. I fondamenti dell’armonia e del contrappunto plastici si trovano nella geometria. Ma di quanti critici e artisti parlano e fanno della pittura e della scultura, quanti hanno veramente capito la geometria?”. La geometria, vera chiave della modernità, è l’elemento fondante della produzione scultorea che mina le basi di tutta un produzione plastica ancora legata al figurativo e al naturalismo, non intesa come rigore creativo, non il sinonimo di una visione conservatrice, ma la valvola si sfogo “di un’ identità spirituale che [lascia] la più ampia libertà nel campo della creazione pura”.
L’idea di una classicità moderna, “incanalata da una intelligenza attenta e vigile”, oggi è di scena al Madre, con oltre duecento opere in una mostra organizzata da Germano Celant che si protrarrà fino agli inizi di aprile (in realtà non sappiamo per quanto ancora potremo goderne, considerando che, mai come in queste ultime ore, la situazione del museo napoletano appare legata ad un sottilissimo filo dove l’intrecciarsi di problemi economici e rese dei conti politici sembrano decretare la chiusura definitiva dell’istituzione). Dunque, un’antologica che ricostruisce una carriera prolifica, capace di costeggiare e rapportarsi sinergicamente con le avanguardie del Novecento senza finire confinata entro i limiti di alcun regime convenzionale, in piena sintonia con quell’anelito di libertà che attraversa i lavori di Melotti, venati di una poesia frizzante, che diventa un esperimento eclettico; al maestro di Rovereto piace mescolare ritmi ed effetti, l’arte greca con la musica classica e i suoni di Bach o Stravinsky.
È un artista nel senso più completo ed eterodosso possibile. La sua cultura, la sua formazione roveretana rappresenta, evidentemente, uno spartiacque importante per il Melotti maturo. Proprio nella città natale collabora con Carlo Belli, attivo fiancheggiatore del panorama astrattista milanese negli anni Trenta, e soprattutto, a Rovereto, c’è Fortunato Depero, che è in contatto con Giacomo Balla con il quale aveva redatto (1915) il manifesto “Ricostruzione futurista dell’universo”, dove si proponevano di creare una nuova realtà, introducendo nelle opere oggetti del quotidiano “per ricostruire l’universo rallegrandolo, cioè ricreandolo integralmente” al fine di trovare “degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo” da combinare “insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione, per formare dei complessi plastici che metteremo in moto”.
È quest’ambiente, nutrito di atteggiamenti nuovi e fuori dall’ordine costituito, a rafforzare in Fausto Melotti i suoi interessi complessi e contribuisce a spiegarne gli esiti diversi. Basti pensare all’incrociarsi di un Melotti musicista, elettrotecnico e artista atipico. Le mani dello scultore, il lampo dello scienziato e il talento fantasioso del pianista jazz. Il roveretano inedito al Madre schiude al visitatore il suo universo, un universo che predilige la terracotta (materiale della tradizione più povera rispetto all’ “aulico” marmo o al bronzo), ma aperto all’uso di maioliche e gessi, sculture a tecnica mista e in ferro, ceramiche e lavori in inox.
Un excursus artistico che procede dai lavori “smaterializzati” degli anni Trenta, indice della personalissima interpretazione astratta dell’artista, passando per le piccole e grandi terracotte degli anni Cinquanta e degli ultimi trent’anni della sua attività, “sporcate” con i materiali più diversi (garze, tessuto, vetro e ottone) tra cui spiccano i fantasiosi Teatrini in terracotta colorata, palcoscenici su cui va in scena uno spettacolo vivace di figure, personaggi ed oggetti, pieni di quella vitalità e di quella leggerezza che sono l’anima scalpitante del suo lavoro, in sintonia perfetta con una sua celebre affermazione: “Un moscerino è una cosa da niente. Eppure si tratta di una macchina capace di alzarsi in verticale come un elicottero e volare in tutte le direzioni, zeppa di congegni elettronici per determinare la posizione, le direzioni, per sfruttare in complicati meccanismi la misteriosa energia di propulsione. Eppure è un niente”.
(Fonte foto: Rete Internet)


