IL DEPRAVATO ESTETISMO DI HITLER E DEI GERARCHI

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È stata da poco ricordata la Shoah, evento terribile messo in opera da chi credeva -follemente- di essere stato chiamato a separare la verità del bello dalla verità del bene. Di Carmine Cimmino

Adolfo Eichmann, il nazista che fu tra gli organizzatori della sterminio degli Ebrei, fuggì, come molti suoi colleghi, in Argentina, con un passaporto falso, che la Croce Rossa svizzera rilasciò accontentandosi della garanzia di un frate francescano. L’ironia del caso volle che il nuovo nome del boia fosse Riccardo Klement, Riccardo Clemente. Nel 1960 gli israeliani andarono a pescare il Clemente in Argentina, lo chiusero in un baule “diplomatico“, se lo portarono a Gerusalemme, e qui, l’anno dopo, lo processarono, e lo condannarono a morte.

Hannah Arendt, che seguiva il processo come corrispondente del New Yorker, raccolse i suoi articoli e le sue riflessioni in un libro, pubblicato in Italia con il titolo: “La banalità del male”. Banale le era apparso Eichmann: un grigio funzionario, “una mezza manica“, incapace di rendersi conto della misura dell’orrore di cui era direttamente responsabile. Molti anni prima Emilio Cecchi aveva scritto nell’ “Osteria del cattivo tempo“: Non è la forza delle passioni (rara, in fondo, come il genio) che conduce al male, quanto l’ottusità dell’intelligenza. Il male, prima di tutto, è questione di intelligenza.

Il “Corriere della Sera“ del 10 maggio 1938 pubblicò tre distinte corrispondenze di Orio Vergani sulla visita ufficiale di Adolf Hitler a Firenze. Sono “pezzi“ strepitosi, nati dall’incontro di tre elementi “unici“: il luogo, il personaggio, la penna di Vergani, che, pur comportandosi da penna di regime, passa agilmente dalla solennità lirica a quella epica, e sa anche raffreddare gli eccessi toccando il tono medio, come quando descrive i giovani nei costumi delle antiche “giostre“ toscane: la giostra del Saracino, il palio di Siena, il gioco del calcio fiorentino, il pisano gioco del ponte.

Questa abilissima penna disegna per i posteri un’immagine eccezionale: quella di Hitler che osserva incantato i quadri di Palazzo Pitti e degli Uffizi. A Palazzo Pitti, “nelle sale dorate“ che ospitano “l’eternità immota dell’arte senza tempo“, dove “si parla a voce bassa e si cammina lentamente come in un tempio“, Hitler “va spesso solo innanzi a tutti, quasi senza ascoltare il commento di chi l’accompagna. Egli si sente solo davanti ai geni dell’arte amata. E ogni tanto sembra che negli occhi e nel viso segnato dai solchi di una intensa attenzione, passi un palpito di emozione“.
Egli riconosce da lontano le opere amate da quando era un giovane studente di belle arti: “avanza allora in fretta, sceglie come chi ha lunga pratica di queste cose il miglior punto di vista, resta a lungo a guardare, con le mani che fan nodo con i guanti, socchiudendo le palpebre e mormorando sommesse parole di ammirazione”.

”Si è fermato cento e cento volte, e tante volte è tornato sui propri passi, e ha chiamato a bassa voce o con un cenno i vicini a partecipare alla sua trepida gioia“. La notte più nera della storia dell’Europa nascerebbe, dunque, dalla convergenza di due assurdità: da una parte l’obbedienza muta, cieca e arida di tranquilli signori che si presentarono agli occhi dei giudici indossando “le mezze maniche“ dell’ impiegato (il tedesco senso del dovere, Hegel, la centralità delle leggi dello Stato) e, dall’altra, il depravato estetismo di Hitler e dei gerarchi, che, convinti di essere stati “chiamati“ dalla storia a costruire, su un nuovo ethos, un mondo nuovo, – possiamo agevolmente immaginare quali sarebbero stati, l’uno e l’altro -, credevano di essere autorizzati a separare la verità del bello dalla verità del bene.

È possibile che Eichmann abbia recitato, nel tribunale di Gerusalemme, la parte del funzionario banale, ma non si può credere che davanti ai capolavori fiorentini Hitler non sia stato veramente scosso dalla sindrome di Stendhal. Che abbia finto. La Madonna del Lippi, la Maddalena e le Veneri di Tiziano, le Madonne di Raffaello e del Murillo, la Madonna di Cima da Conegliano, i capolavori di Durer e di Cranach: quale emozione suscitarono in Hitler? Quale dialogo poté svilupparsi tra lui e la Madonna della Seggiola, tra i suoi occhi di allucinato e la divina malinconia che Raffaello ha dipinto nello sguardo della Madonna del Granduca?

Una spiegazione accettabile della natura del turbamento di Hitler l’ho trovata in una pagina dell‘ “Estetica dell’osceno“, in cui Guido Almansi descrive una oscenità particolare: quella del tiranno che proietta sé stesso – il suo io espanso in una gigantesca bolla d’aria – in tutte le forme della realtà, nelle persone e nelle cose, attraverso una mostruosa ipertrofia dei sensi, che dovrebbe consentirgli di percepirsi come il padrone assoluto di tutto.

Hitler va da solo a confrontarsi con le opere, scrive Vergani: tutti gli altri, i mediocri, fanno da pubblico. Devono accontentarsi del privilegio di vedere, da lontano, Hitler davanti a Cranach, Hitler davanti a Tiziano, di intuire che tra Hitler e i pittori si sta svolgendo, attraverso i quadri, un dialogo: che essi, i mediocri, la folla, non potrebbero capire. Lui, invece, è il fuhrer, lui è convinto di portare in sé una intensa scintilla del genio che ha illuminato la mente e mosso la mano di Raffaello e di Durer. I pittori che Hitler mostra di ammirare sono, non per caso, i Maestri dell’umanesimo rinascimentale, che hanno “visto“, negli uomini e nella natura, la perfezione dell’idea e hanno saputo descriverla agli altri attraverso l’armonia impassibile delle linee e dei colori, della luce e delle ombre. A Hitler non interessavano i quadri. Hitler invidiava i loro autori, che avevano arricchito il cosmo creando nuove forme.

Invidiava Durer, che nell’ Autoritratto con i guanti e nell’ Autoritratto con pelliccia aveva osato rappresentarsi come Cristo. Hitler condannò come “degenerati“ Cézanne, Van Gogh, Munch, Picasso, Matisse, Dix, gli espressionisti, espulse le loro opere dai musei, ne bruciò una parte in pubblico. Non a caso. I quadri dei “degenerati“ sono lo specchio in cui si riflette la realtà del Novecento, distorta, frantumata, sconvolta dal male che corrompe la vita quotidiana di uomini senza qualità, prima ancora di diventare il Male della prima e della seconda guerra mondiale, dei campi di sterminio, dei gulag, di Hiroshima. Hitler non gradiva specchi di quel genere, che risultavano, infine, tribunali della coscienza.

Non gli faceva piacere vedersi qual era in realtà, come l’aveva visto e raffigurato l’arte feroce di Otto Dix, nel quadro I sette vizi capitali: che è del 1933, l’anno in cui Hitler conquistò il potere: un piccolo uomo, grigio di un pallido giallo epatico, la chioma straniante di un bambino, gli occhi esorbitanti e divergenti, istupidito dal terrore in una sarabanda di mostri che in verità sono più ridicoli che minacciosi.
(Foto: Quadro di Otto Dix: “I sette vizi capitali”, 1933)

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