E prima di morire Augusto disse: “Poiché sono stato un buon attore, voglio l’applauso”

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Augusto morì il 19 agosto di 2000 anni fa. Dedico I’articolo alle autorità napoletane e vesuviane che hanno dimenticato la ricorrenza, e al Comitato Civico di Ottaviano e a Gennaro Barbato che, invece, hanno la memoria buona. L’importanza di un capitello.

 Una sagra “augustea”: ‘o cuoppo ‘e fritturina, formaggio, fichi verdi, pane con l’uva.

Dissero le male lingue che nella morte di Augusto c’era la mano dell’affettuosa moglie Livia: la quale, per portare al trono Tiberio, eliminò, con ogni mezzo, i concorrenti. Rimaneva solo Agrippa Postumo, figlio di Giulia, figlia scapestrata dell’imperatore: il giovanotto era tutto sua madre, e perciò il nonno lo aveva relegato a Pianosa, perché si calmasse. Quando giunse a Livia la notizia che Augusto aveva incontrato il nipote in gran segreto – ma anche allora i segreti duravano un attimo – e che c’erano stati abbracci calorosi e pianti, temette la buona donna che il vecchio riportasse a Roma Agrippa e gli affidasse il trono. Lo spavento la spinse all’azione. All’imperatore, che non era goloso, piacevano i fichi: era solito staccarli dai rami, e mangiarli sul posto. Un giorno staccò, e divorò, dei fichi che Livia aveva avvelenato: la voluttà gli fu fatale. Così dissero le male lingue.

Un fatto è certo: gli ultimi giorni dell’imperatore furono travagliati da disturbi intestinali di varia intensità: il che non gli impedì di dedicarsi ai soliti divertimenti nel ritiro di Capri, nella villa che forse sorgeva alla Punta di Tragara, e che egli chiamava “Apragopoli”, che significa “città della dolce vita, città dell’ozio”. Poi si recò a Napoli, e sebbene i disturbi non si attenuassero, assistette fino alla fine ai giochi quinquennali di atletica che i napoletani, che andarono d’accordo con tutti gli imperatori, avevano istituito in suo onore. Poi accompagnò Tiberio, l’erede, fino a Benevento. Al ritorno, la malattia si aggravò, a tal punto che Tiberio fu richiamato indietro e Augusto venne trasportato nella villa di Nola.

Il 19 agosto, sentendo ormai imminente la fine, egli fece portare uno specchio, si fece acconciare i capelli e rassodare con unguenti le guance cascanti. Forse ricordò, in quei momenti, che il suo prozio e padre adottivo Giulio Cesare, mentre stramazzava, le carni squarciate dai pugnali dei congiurati, riuscì ad allungare fino ai talloni il lembo della toga: fu il suo ultimo gesto: egli non avrebbe mai permesso che il suo corpo giacesse a terra indecorosamente, con le gambe scoperte. Il modo di morire era per i Romani di un certo ceto la sintesi della vita stessa, un ultimo capitolo – gli ultimi gesti, le ultime parole – in cui c’era la chiave di lettura dei capitoli precedenti. Acconciatosi per morire in modo degno, Augusto permise che entrassero nella stanza gli amici e domandò se credevano che egli avesse interpretato bene, fino all’ultima battuta, la farsa della vita. Poiché quelli esitavano a rispondere – potevano suonare offesa sia il sì che il no -, l’imperatore morente si rispose da solo: “ Poiché sono stato un buon attore, concedetemi il vostro applauso e tutti insieme congedatemi con gioia.”.

Poi ordinò che uscissero tutti, riuscì a dire alla moglie “ Livia, ricordati finché vivi del nostro matrimonio, e addio! “ e spirò tra i baci di quella. Era l’ora nona, tra le due e le tre del pomeriggio, del 19 agosto del 14: l’imperatore morì nella stessa stanza in cui era morto il padre. Dice Svetonio che un attimo prima di spirare, vinto dal terrore, si era lamentato di esser trascinato via da quaranta giovani. Ma era un presagio più che un segno di confusione mentale: infatti il suo feretro venne portato da quaranta soldati pretoriani. Augusto ottenne dagli dei l’ “euthanasìa”, la morte rapida e senza sofferenza che aveva sempre augurato a sé e ai suoi cari.

Credo che le autorità dei luoghi “augustei” della provincia napoletana non abbiano dimenticato la ricorrenza: ma è agosto, fa caldo, e chi può va a mare, e chi non può resta a casa, al fresco. Si poteva metter su una sagra in onore di Augusto, che mangiava poco, ma andava pazzo per il pane accompagnato da chicchi di uva duracina, e la fritturina di pesce, e il formaggio di vacca pressato a mano e i fichi verdi, che maturano due volte l’anno, e che, secondo le male lingue, gli furono fatali. Ma per le sagre c’è sempre tempo.

Che spazio riserva agli scavi “augustei” il piano turistico regionale ? Mi pare che sia uno spazio ridotto, soprattutto se si pensa all’ importanza dei monumenti che aspettano di vedere la luce. I membri del Comitato Civico di Ottaviano e il dott. Gennaro Barbato non hanno dimenticato la ricorrenza: non potevano: essi credono autenticamente in certi valori, e operano per affermarne senza sosta l’importanza. Il 19 agosto hanno fatto una “passeggiata” tra i resti delle ville romane di Ottaviano e poi sono andati a visitare il Museo Archeologico di Nola. Hanno dato testimonianza concreta del loro interesse, e questo conforta il loro diritto a chiedere che si avvii finalmente una seria campagna di scavi per ricostruire nella sua interezza le forme e le strutture della civiltà romana tra il Vesuviano e la Campania Felice.

Il capitello della fotografia che apre l’articolo venne trovato ai confini di Ottaviano, in un luogo che prima dell’accordo che alla fine del ‘700 stipularono i Medici e gli Albertini faceva parte integrante del territorio ottajanese. Quel capitello, notevole in sé e ancora più notevole come indizio dell’importanza dell’ edificio – del complesso di edifici? – da cui proviene, è meglio che torni nella nostra città: non è bello vederlo ridotto in quelle condizioni. A proposito. Il sindaco di Ottaviano ha buona memoria: e dunque ricorda di essersi pubblicamente impegnato a far sì che venga portata alla luce l’importante struttura romana in cima a via Valle delle Delizie. Ci abbiamo messo il pensiero. E anche noi abbiamo una buona memoria.