CARAVAGGIO E LA TAPPA FONDAMENTALE DEL SUO SOGGIORNO NAPOLETANO

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    L”artista lombardo, lasciata Roma per l”accusa di omicidio, si trasferisce a Napoli dove realizza alcune opere memorabili per il suo percorso artistico e per l”influenza che avranno sulla pittura locale.

    “Domenica 28 maggio 1606 si cominciò la festa per la coronazione del papa la quale fu di 29 maggio dell’anno passato […]. In Campo Marzio l’istessa sera Michel Angelo Caravagio pittore ferette et ammazzò con una stoccata nella banda per dentro nella coscia Ranuccio da Terni, del che a mala pena confessato morì”.

    Sono queste le brevi righe del verbale che attesta l’accusa di omicidio che venne rivolta al pittore più celebre del seicento, Michelangelo Merisi detto Caravaggio, temperamento geniale e protagonista incontrastato di una vita tormentata, spesa tra il lusso e la ricchezza dei nobili palazzi romani e la feccia della strada, tra lenoni e prostitute. Il drammatico episodio che gli sconvolse la vita lo costrinse ad allontanarsi dalla città in cui era stato condannato alla pena capitale e rappresentò, dunque, il motivo trainante del suo passaggio a Napoli, città ricca e cosmopolita in cui si spostò a partire dal 6 ottobre di quello stesso anno. Le ragioni di tale scelta furono da imputare, oltre alla sicura protezione dalla giustizia romana, soprattutto alla possibilità di poter contare sull’amicizia e l’ospitalità di Costanza Colonna, marchesa di Caravaggio.

    E così il pittore accese il suo fuoco nella capitale del Viceregno spagnolo, esportando la sua prorompente visione artistica, non più improntata a puri concetti astratti o prevenute concezioni filosofiche, bensì costruita del più disarmante realismo, capace di enucleare gli oggetti attraverso un’improvvisa epifania di luce, decisa e rivelatrice. Il “vero naturale” da cui Caravaggio “si lasciava trascinare”- come sottolineò lo storico seicentesco Andrè Fèlibien – non fu certo rivolta plebea, né la proposta intellettualistica di un’arte popolare in opposizione a quella aulica ma, piuttosto, la rivoluzionaria proposta di un artista profondamente addentrato nelle vicende culturali e storiche del suo tempo: non plebeo, bensì di animo popolare.

    Quando Caravaggio giunse a Napoli, la sua fama lo precedeva. Inoltre, grazie anche alla cospicua presenza di imprenditori lombardi, comaschi, milanesi e bergamaschi operanti in città, l’artista ebbe immediatamente numerose commesse. Il clima fertile della capitale partenopea insieme con l’appagante riconoscimento alla maestria di Michelangelo rappresentarono l’humus prospero per la creazione di alcune opere memorabili. Come la Flagellazione per San Domenico, dove la scena si snoda intorno alla colonna alla quale è legato il Cristo, immerso dalla luce che ne evidenzia la torsione in un movimento fluttuante quasi di danza, circondato dalla ferina violenza degli aguzzini, drammaticamente impegnati nella turpe preparazione del supplizio.

    Per l’altare maggiore di Pio Monte della Misericordia, la congregazione costituita da giovani aristocratici gli commissionarono una grande pala raffigurante le Sette opere di Misericordia (foto): le sei enunciate da Cristo nel Vangelo di Matteo e la sepoltura dei morti, problema importante per una città recentemente dilaniata dalla carestia. È il 1607. In breve tempo il maestro mette in scena una complessa macchina teatrale, originalissima interpretazione del tema iconografico, attraverso un’impaginazione inedita delle sette opere di misericordia corporali colte in una simultaneità di tempo, luogo e azione. Il pennello di Caravaggio rende con vivace realismo un caratteristico quadrivio dei vicoli napoletani, riprendendo “la verità nuda di Forcella e Pizzofalcone”, come ha scritto Roberto Longhi, che del Caravaggio è stato il più grande studioso ed interprete.

    Unica fonte di luce artificiale, il bagliore di una torcia al centro della tela impegna il pittore in una vivace indagine che illustra gli effetti che l’elemento luministico produce sulle figure e sui corpi solidi che emergono con scatto repentino dalla penombra. Ulteriore testimonianza della sua capacità innovativa, il maestro lega la parte superiore del dipinto, costituita dal gruppo divino, a quella inferiore del mondo umano attraverso la decisiva figura dell’angelo di sinistra, dalla posa acrobatica, stretto in un nodo d’amore all’altra creatura celeste di destra, intermediazioni non solo figurative tra sfera celeste e sfera terrena. Come nella primitiva chiesa cristiana anche nell’opera di Caravaggio il dramma umano è vissuto con la massima verità e naturalezza senza il diretto intervento della divinità, che assiste alle vicende quasi da un’ideale balconata da cui si affaccia.

    Alle grandiose imprese del primo periodo napoletano seguì un ritorno nella città nel 1609 (dopo un intenso peregrinare tra Malta e la Sicilia), da cui saranno partoriti altri capolavori come la Salomè, la Negazione di Pietro e il Martirio di sant’Orsola, dipinti con cui Caravaggio sperimenta una nuova fase, improntata ad un genere più essenziale, rapido e a una scala minore delle figure, emergenti da “fondi e ombre fierissime” con lunghi tocchi di luce, inquadrate entro ampi spazi architettonici. Alla sua morte nel 1610, avvenuta secondo le cronache per un improvviso attacco di febbre su una spiaggia di Porto Ercole “mentre da Napoli veniva a Roma per la gratia da Sua Santità fattali del bando capitale che haveva”, Caravaggio lasciava a Napoli una folta schiera di artisti conquistati dalla sua maniera.

    Risultano evidenti le decisive conseguenze sul piano stilistico e qualitativo che l’opera dell’artista ebbe su questa nuova generazione che si avviava, così, a bandire la matrice tardo-manierista della tradizione locale per avviare la pittura partenopea al suo “secolo d’oro”; la straordinaria intensità visiva e la concentrata resa naturalistica, essenziali elementi sintattici della grammatica del maestro lombardo, preparano il campo al moderno linguaggio pittorico di dimensione internazionale della scuola napoletana.
    (Fonte foto: Rete Internet)

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