Un caffè con…Luigi Corcione

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Luigi Corcione, segretario di "Fare Futuro per Sant'Anastasia"

Segretario dell’associazione politica «Fare Futuro per Sant’Anastasia», giornalista pubblicista, laureando in Lettere Moderne con una tesi su Machiavelli, ha in programma iniziative pro acqua pubblica, contro la Gori.

L’associazione «Fare Futuro» è nata ufficialmente agli inizi di dicembre 2015, è presieduta da Antonio Marino ma il segretario è Luigi Corcione, 26 anni, mai una tessera di partito ed una sola esperienza da candidato alle amministrative, con Fratelli d’Italia a Somma Vesuviana in sostegno dell’attuale primo cittadino, Pasquale Piccolo. Fare Futuro è dunque, per Corcione, il debutto politico nella sua città, Sant’Anastasia. Ed è stato lui, inaugurando la sede di via D’Auria a dicembre scorso, a tracciare le linee sulle quali intende muoversi l’associazione, vicina peraltro alle posizioni dell’amministrazione comunale in carica a guida del sindaco Lello Abete. Battaglia per la riapertura dei condoni edilizi del 2003, no alla cementificazione selvaggia del territorio, riconversione delle risorse naturali, sviluppo del terzo settore e del comparto turistico ricettivo nonché di quello agroalimentare, recupero di un vecchio progetto che riguarda la catalogazione delle masserie anastasiane, tutela delle eccellenze del territorio e una vera e propria dichiarazione di guerra alla Gori. Essendo un’associazione politica, Fare Futuro non ha mancato, ovviamente, di entrare a gamba tesa nelle vicende cittadine: con un manifesto, per esempio, in cui si chiedono le dimissioni del presidente del consiglio comunale Mario Gifuni. Nell’intervista che segue, Luigi Corcione racconta il suo percorso di studi, il lavoro che ha mantenuto per quattro anni fianco a fianco con i padri domenicani di Madonna dell’Arco, l’esperienza da pubblicista con quotidiani e testate online, le sue inclinazioni politiche e le speranze per il futuro nel quale si vede proiettato nella veste di docente di letteratura, dopo aver conseguito la laurea in Lettere Moderne e la specialistica in Filologia.

Luigi, se ti chiedessi di descriverti con uno o più aggettivi?

«Sensibile, sentimentale, un po’ lunatico. Ho tutte le caratteristiche del mio segno zodiacale, il Cancro, anche se non credo nell’oroscopo».

La tua famiglia?

«Sono il primo di tre figli. Ciro ha appena tre anni meno di me anche se nessuno lo direbbe, tutti pensano che sia lui il più “vecchio”, poi c’è Francesco, il più piccolo. Mia madre Maria è una sarta, papà – Vincenzo – si è occupato di contabilità in passato, è un ragioniere. Ora lavora, da almeno otto anni, al Supermercato Piccolo».

Com’è crescere con un via vai di signore in casa? Immagino che con il lavoro di mamma, tra abiti da sposa e da cerimonia, ne abbia viste tante.

«Sì, sono cresciuto ascoltando signore che si lamentavano per qualche chilo di troppo, magari. Da qualche anno sto molto meno in casa, ma l’atmosfera era sicuramente piacevole. Ricordo donne che volevano anche due o tre misure al giorno, altre contentissime che arrivavano con un modello di mamma pretendendo di averlo uguale. Oggi il settore dell’artigianato è anch’esso profondamente colpito dalla crisi, mamma però ha sempre lavorato e ancora oggi è così, spesso con il sostegno di sua sorella Carmela. Lavorano insieme, si aiutano, in particolare per gli abiti da sposa che richiedono più impegno e tempo. Credo avessero in mente, tempo fa, di aprire una sartoria. Non so se questo progetto c’è ancora».

Hai sempre abitato nel quartiere Capodivilla?

«Sì, nel parco Santa Rita. Un’isola felice, un mondo chiuso, un po’ quartiere a sé. Nel rione la socializzazione è sempre stata particolare, i ragazzi giocavano in strada. Noi preferivamo altri giochi, sapevamo usare Internet e il computer quando i nostri coetanei non li conoscevano nemmeno, agli albori del boom del web».

Il rione Capodivilla, lo dice il nome stesso, è l’inizio della città. Un insediamento importante, direi storico. Ma noto anche per vicende meno piacevoli, considerato per qualche anno la roccaforte della camorra. Come hai vissuto quel periodo?

«Quando si scatenò la guerra di camorra io ero già al liceo, da piccolo invece non percepivo quella realtà. Si viveva tranquilli. Poi, crescendo, capisci che quella era considerato dalla cronaca una sorte di roccaforte, appunto. Si aprono gli occhi, si capiscono altre cose, altre dinamiche delle quali da bambini non ci si rende conto».

Credi che quelle vicende abbiano frenato lo sviluppo del quartiere?

«La camorra, in ogni sua forma, tende sempre a limitare le risorse di un luogo. Ma Capodivilla può ancora donare tanto alla collettività, ci sono tante persone per bene che possono dare contributi fattivi a tutti gli strati della vita attiva, dalla politica all’associazionismo, dal commercio all’imprenditoria. Nonostante quella macchia».

È anche sede di tradizioni antiche…

«Sì, dal ricamo ai prodotti tipici. Ci sono molti contadini che si occupano di produrre la Catalanesca che però pare, purtroppo, non essere più quella di una volta. Anche chi coltiva le albicocche non sembra passarsela bene. Diciamo che Capodivilla è un centro nevralgico di Sant’Anastasia, come Sant’Antonio del resto, ed essendo un borgo antico dà l’impressione di essere un po’ indietro rispetto al resto del paese. Non è certo colpa dei residenti ma di chi, negli anni, avrebbe potuto e dovuto far qualcosa».

Sant’Anastasia ha avuto per dieci anni un sindaco che abitava in quel quartiere…

«È come se non avesse giovato. Dal punto di vista urbanistico è rimasto com’era, al di là del rifacimento di un manto stradale o di aggiustamenti necessari. Ma è accaduto così in ogni insediamento storico cittadino, non so dire se sia un bene o no».

Cos’è che vorresti veder cambiare dal punto di vista urbanistico, sociale, magari anche estetico?

«Capodivilla è un quartiere particolare, ogni volta che si cerca o si pensa di realizzare qualcosa si devono fare i conti con una certa resistenza, come se si avesse paura del cambiamento, dei mutamenti, fosse anche un senso unico di circolazione ossia la cosa più semplice – direi stupida – che possa esserci per quanto concerne il riassetto urbano di un rione. Sarà anche una forma di ribellione sociale, ritengo. Per me andrebbe rivitalizzato, non solo dal punto di vista viario ma attraverso il piano urbanistico comunale, con innovazioni, incentivi commerciali, investimenti. Vorrei vedere quel rione al centro di politiche che mirino al rilancio dei borghi antichi. Mi viene in mente, a pochi passi da noi, il borgo Casamale che, nonostante le difficoltà, rappresenta comunque per Somma Vesuviana il centro nevralgico di tradizioni popolari».

Quando facevo cenno alle tradizioni popolari, pensavo anche alla chiesetta e ai festeggiamenti della Madonna del Carmelo. Cosa rappresentano per te?

«La festa coincide con il mio compleanno, sono nato il 18 luglio, dunque è sempre stata festa anche per me. In quei giorni accade che tutte le paure, i pensieri negativi scompaiano, che tutti i contrasti sorti all’interno del quartiere e tra gli stessi abitanti si appianino. È festa, appunto, per ogni abitante di Capodivilla».

 

Da bambino, se ti chiedevano cosa avresti voluto fare nella vita cosa rispondevi?

«Sognavo di scrivere, a chi mi chiedeva cosa volessi fare ho sempre risposto così. Ero attratto dal mondo del giornalismo e ogni sera, nonostante la mia giovane età e nonostante i coetanei non comprendessero, restavo inchiodato alla tv per guardare “Il Fatto” di Enzo Biagi. Amavo anche Gianfranco Funari, è una figura che mi ha affascinato dal punto di vista comunicativo. Iniziavo a comprendere la mia passione. Oggi più che altro è un’impresa, un mondo difficilissimo quello del giornalismo».

Soprattutto a Napoli…

«Sì, forse si dovrebbe andare via. Ma al di là del giornalismo mi ha sempre attratto anche l’insegnamento. Sono due professioni accomunate dal fatto che rappresentano una missione sociale, dal comunicare ciò che accade con una personalizzazione delle analisi».

Il giornalismo come «missione sociale» non ti sembra una visione un po’ utopica oggi?

«Un po’, sì. Se fai cronaca ed entri nella quotidianità capisci che non è così. Infatti oggi leggo molto meno i quotidiani rispetto a qualche tempo fa, non riesco a trovare una testata che mi “rapisca” come ha fatto Il Foglio nei suoi primi anni. Mi piace molto Sergio Rizzo del Corriere della Sera e anche il primo Giuliano Ferrara, con la sua maniera di fare giornalismo e riflessione politica».

I tuoi studi prima dell’Università?

«Il Liceo Classico a Somma Vesuviana, mi sono diplomato nel 2009 con una tesina sul “dubbio”. Poi mi sono iscritto a Scienze Politiche finché ho capito che non era quello il mio mondo».

Scegliesti quella facoltà perché ritenevi fosse propedeutica al mondo del giornalismo?

«Sì, invece la trovai una sorta di Giurisprudenza “in miniatura”. Così mi iscrissi a Lettere Moderne, oggi mi mancano solo tre esami al traguardo e ad ottobre prossimo dovrei laurearmi con una tesi su Niccolò Machiavelli, uno dei miei autori preferiti».

Perché Machiavelli?

«Perché ha superato le barriere spazio-temporali. Intellettuale, scrittore, politico, ha varie sfaccettature. In alcuni suoi scritti politici ci sono idee senza tempo. Ancora oggi se si legge «Il Principe» è possibile attagliare certi passi all’attualità. Sembra che parli di Matteo Renzi o di Barack Obama più che di Lorenzo il Magnifico vissuto secoli fa».

«Il Principe» è l’opera che preferisci?

«È anche la più nota, ma potrei dire che è così. Per chi si approccia alla politica o alla sua critica è quasi una Bibbia o un Vangelo».

Hai 26 anni, ci hai messo un po’ per il traguardo universitario.

«Sì, anche perché – purtroppo o per fortuna – in questi ultimi anni ho lavorato».

Purtroppo o per fortuna?

«Alla luce dei fatti, purtroppo. Ho lavorato per quattro anni al Santuario di Madonna dell’Arco, occupandomi della Biblioteca e del Centro Studi Arco. Per i primi due anni ho catalogato tutto il patrimonio librario, la mia parabola lavorativa si è conclusa a novembre scorso quando è stato deciso di ridimensionare il personale. Sette licenziati, tra questi ci sono anch’io, il più giovane. Oggi la Biblioteca del Santuario è aperta solo una volta alla settimana, il periodico “La Madonna dell’Arco” avrà una sola uscita annuale».

Le motivazioni dei licenziamenti?

«Purtroppo l’attuale rettore, padre Alessio Romano, ha ereditato una situazione difficilissima, credo che il bilancio sia ancora in rosso».

Non si poteva far altro per risanarlo, prima di decidere per i licenziamenti?

«Prima forse sì, ma lui è arrivato qui quando la situazione era già delicatissima e tragica».

Eppure i Domenicani hanno sempre avuto fama di essere più che benestanti.

«Il Lunedì in Albis non è più fonte di guadagno come ancora si poteva dire una decina di anni or sono. Il patrimonio immobiliare si è assottigliato negli anni, qualcosa è stato venduto per coprire stipendi e spese di fornitori. Le Opere rendono poco: la casa di riposo si mantiene ancora autonoma perché negli ultimi anni si è fatta una convenzione con la Regione, la chiusura del Liceo è stato il primo vero segnale della decadenza; l’ex orfanatrofio è affittato ad una scuola di formazione, l’albergo che chiuse tempo fa in maniera brusca è stato riaperto, per fortuna, affidandolo ovviamente a privati. Credo che i Domenicani non siano sempre stati all’altezza di gestire un patrimonio così grande».

Cosa ti ha lasciato quell’esperienza lavorativa?

«Mi ha sicuramente arricchito dal punto di vista professionale e umano, lavorare in una biblioteca è un po’ il sogno di tutti coloro che amano i libri come me, che vivono per leggere e scrivere. Certo, mi ha un po’ distratto dalla rincorsa verso la laurea, la meta finale di ogni studente universitario. Però è stato bello avere a che fare con miriadi di libri, con ragazzi che venivano a studiare, con ricercatori universitari e laureandi in cerca di testi per tesi sulla religiosità popolare».

I libri che hai amato di più in quel periodo?

«Il patrimonio librario della biblioteca è vastissimo, al di là del fondo Emilio Merone che comprende soprattutto testi di giurisprudenza o in latino. Negli anni è cresciuto con la morte di vari frati che hanno lasciato i loro libri al convento e che costituiscono un’offerta variegata a seconda delle passioni o degli studi di ciascuno. Quanto a me, ho apprezzato molti testi risalenti alla seconda guerra mondiale, edizioni rarissime che vertono sul rapporto tra teologia e politica, tra Chiesa e Stato. E poi ci sono i Corali dei quali si è parlato moltissimo e che dopo centinaia di anni sono ritornati a casa, in Santuario, grazie a fortunose coincidenze: lavoravo lì quando l’allora rettore, padre Gerardo, li acquistò all’asta da Christie’s. Quella particolare esperienza rappresentò un ulteriore arricchimento personale, fu formativa grazie a contatti di quel periodo con Londra e New York».

Dunque ora stai solo studiando…

«Sono in disoccupazione. Studio per gli ultimi esami e preparo la tesi. Dopodiché mi iscriverò subito alla specialistica, continuando gli studi in Filologia. Una materia che mi ha sempre attirato. Alla fine, ritengo, propenderò per l’insegnamento».

 Hai rinunciato al giornalismo?

«Non è il mondo che mi aspettavo, ma del resto sono stato appena una matricola. Ho iniziato a collaborare con Il Roma, un anno e pochi mesi. Un breve periodo con ilmediano.it e, infine, ho terminato il periodo necessario per conseguire il tesserino da pubblicista con la testata online Il Mediterraneo diretta da Mary Liguori. Ora sto partecipando ai corsi di formazione, come ben sai è obbligatorio».

Questi anni di collaborazione con varie testate cosa ti hanno insegnato?

«Molto, moltissimo. Con Il Roma il rapporto di collaborazione era quotidiano, mi occupavo di cronaca, ho seguito campagne elettorali a Somma Vesuviana, la politica in queste zone, anche a Sant’Anastasia. Ma poi ho perso l’entusiasmo, lo stimolo ad un lavoro vero e proprio poco o nulla retribuito. È stato un mio errore mollare, quando non sei nessuno devi insistere, lavorare bene per ottenere – forse – quel che cerchi. Ma poi ho conosciuto Mary Liguori, lei mi ha dato molto spazio, mi occupavo di cronaca e di quel che mi piaceva, l’analisi politica. Ora sono fermo, devo laurearmi e non è più il caso – per correttezza e questioni attinenti alla deontologia – che mi occupi di politica a Sant’Anastasia dove sono impegnato attivamente proprio in un’associazione politica».

Se dovessi prendere a modello un giornalista, sceglieresti ancora Giuliano Ferrara?

«Alla direzione del Foglio gli è succeduto Claudio Cerasa, ma è comunque meno impattante dal punto di vista comunicativo, molto meno televisivo. Però non ho più modelli, non ce n’è uno che mi piaccia in tutte le sfaccettature, in tutte le uscite. Il giornalismo d’inchiesta lo fanno in pochissimi, la Gabanelli tiene ancora abbastanza ma lascia il tempo che trova perché spesso sembra costruita. Rosaria Capacchione mi piaceva ma poi ha scelto altre strade».

Ha scelto la politica. Ecco, per te la politica è stata una passione fin da piccolo?

«Sì, anche se soprattutto a livello locale ho per lo più evitato, fino ad oggi, di partecipare al dibattito politico perché non mi si affibbiasse un’etichetta. Da qualche tempo ho invece scelto di prendere parte attiva alla vita del paese».

La prima campagna elettorale in cui ti sei impegnato?

«Nel 2010, il candidato sindaco era Carmine Esposito. Mi impegnai in sostegno di mio zio, l’attuale sindaco Lello Abete, che era candidato al consiglio comunale nella lista Arcobaleno e fu poi riconfermato alla presidenza dell’assise per la seconda volta in pochi anni. Dopo quella fase attiva mi interessai più che altro della cronaca cittadina, anche della politica, da corrispondente».

Cosa ricordi di quella campagna elettorale?

«Più che altro ero impegnato nella personale campagna elettorale di mio zio Lello, lo accompagnavo. Ma fu di sicuro travolgente, quel periodo cambiò proprio il modo di fare campagna elettorale: la coalizione di Esposito rappresentava una sorta di cartello inedito, la voglia di rottura con il passato, la necessità di ripartire. C’era, in tutti gli schieramenti, una sorta di personalizzazione del leader politico, si votava la persona più che l’idea. Forse a livello locale è sempre stato così ma nel 2010 lo fu ancora di più. Fu una campagna elettorale focosa, sanguigna».

Così forte da influenzare, come è accaduto, anche la campagna elettorale successiva, no?

«Di sicuro da tracciare la linea per il futuro politico di Sant’Anastasia, anche se poi ci sono state evoluzioni: la politica è in cammino, non si ferma su certe posizioni. Quella fu un’amministrazione in cui predominava il leader, la figura carismatica del sindaco. Gli assessori e i consiglieri comunali sembravano non avere identità».

Dunque un periodo negativo?

«Non so dirlo. Negativo se lo si contestualizza storicamente rispetto al futuro. Perché, alla fine, quando cade un leader e non ha costruito una sorta di autonomia politica per chi resta…».

Ma tu ti impegnasti in quella campagna elettorale in sostegno di Lello Abete solo perché sei suo nipote o lo avresti sostenuto comunque?

«Lo avrei appoggiato in ogni caso. Lui credeva fortemente nel progetto, nel rinnovamento politico di Sant’Anastasia, per me è un punto di riferimento. Il nostro rapporto era fortissimo, oggi ci vediamo meno perché i suoi impegni tolgono tempo ai legami familiari, le nostre chiacchierate politiche, i confronti che ci tenevano impegnati diverse ore, mi mancano. Però devo dire che basta anche un solo sguardo per capire cosa pensa o cosa vuole comunicarmi».

Cos’è che comunica?

«Oggi si trova di fronte alla semina di quella che è la sua impronta politica. L’anno venturo se ne vedranno i frutti. Rispetto a chi lo ha preceduto, lui ha saputo creare una sorta di democrazia. Gli assessori hanno più libertà di azione, i consiglieri possono esprimere le loro posizioni».

Vista la situazione e tenendo presente l’ultimo consiglio comunale, non sarà troppa?

«Non so se sia troppa, so che lui ha tracciato la rotta. I frutti di un cambiamento politico non si vedono in pochi mesi, c’è bisogno di tempo».

A dire il vero sono passati due anni, non pochi mesi.

«Ma sta ad ogni assessore o consigliere fare tesoro dell’impronta politica che il capo di un’amministrazione riesce a dare. Lui è stato intuitivo e forse, sì, rispetto ad una realtà come Sant’Anastasia fin troppo democratico. Ha però il grande merito di aver dato a ciascuno ampio margine di azione, espressione e libertà».

Ritieni che se si fosse candidato alla carica di sindaco in altre circostanze ora sarebbe comunque a Palazzo Siano? Non essendoci più la squadra originale credi che ci sia ancora quella continuità che ha sbandierato in ogni sua uscita pubblica in campagna elettorale, vincendo?

«Il suo seguito elettorale lo ha sempre avuto, la continuità si esprime attraverso le idee non tramite le persone. Un’idea può essere portata avanti in maniera diversa, da persone con carattere diverso».

Allora parliamo di idee. La battaglia sulla zona rossa e i condoni che fine ha fatto? L’idea di un paese messo a sistema e a regime ogni singolo giorno? Un certo modo di lavorare, comunicando costantemente i risultati?

«A livello di condoni è innegabile una sorta di presa di coscienza, ma non ritengo che la situazione rispetto a quelli dell’85 e del ’94 si avvii verso la risoluzione solo perché qualche sindaco ha alzato la voce. Idee e battaglie saranno portate avanti, sarà favorito il dibattito che incentivi il riconoscimento anche per quelli del 2003. Il nucleo fondante di chi oggi amministra è mettere attenzione tutti i giorni, quanto al resto, va senza dubbio riconosciuto grande merito a chi prima si occupava di comunicazione e propaganda».

Stai parlando dell’ex capostaff Ciro Pavone?

«Si».

Vediamo se ho compreso il tuo pensiero: tu credi che le idee siano le stesse di prima ma portate avanti in maniera più democratica?

«È innegabile che istintivamente si possa pensare che prima c’era più dinamismo, ma si deve anche comprendere che il contesto è diverso, che sono passati tre anni, che molte cose- a cominciare dalla redazione del bilancio- sono differenti».

Perché non ti sei candidato a Sant’Anastasia, nel 2014? Hai preferito Somma Vesuviana e un’esperienza in sostegno di Pasquale Piccolo- che pure ha vinto- nella lista di Fratelli d’Italia.

«Non mi sentivo pronto per Sant’Anastasia, non mi sembrava corretto- senza aver fatto prima altre esperienze- diventare magari il candidato di mio zio. Poi, anche senza aver mai avuto tessere di partito, mi sentivo molto vicino al progetto politico di Fratelli d’Italia, lo guardavo con molto entusiasmo, anche se oggi non posso dire lo stesso: era nato con altre ambizioni, oggi c’è una sorta di autoreferenzialità, si è un po’arenato. Sono e resto, comunque, di Destra».

Quanti voti riuscisti a racimolare a Somma Vesuviana?

«Sessantatré».

Non sufficienti, naturalmente, per entrare in consiglio comunale. Conosci però bene il sindaco di Somma, Pasquale Piccolo. Che amministratore è?

«Ha dovuto fare i conti con una situazione difficile, con diversi baluardi della politica sommese. Raggiungere l’equilibrio è alquanto complicato».

Infatti ci sta ancora provando. Anche Lello Abete sta ancora cercando un equilibrio a Sant’Anastasia? Proprio in occasione del debutto della tua associazione, Fare Futuro, il suo intervento fu incentrato, tra l’altro, sull’apertura a tutte le forze politiche in consiglio comunale.

«Al momento non c’è alcun accordo con l’opposizione, la situazione politica generale potrebbe trarre in inganno da questo punto di vista ma la linea è la condivisione su alcuni punti importanti per la città e che ciascuno, in consiglio comunale, è libero di votare».

Questo è solo buon senso, dovrebbe accadere in ogni assise, dovrebbe essere il normale atteggiamento di ciascun consigliere comunale, che sia di maggioranza o di opposizione, purché faccia il suo dovere nei confronti della comunità. Io ho sentito invece il sindaco dire altro: aprire il confronto con le diverse forze politiche non ha alcuna attinenza con, per esempio, appellarsi al senso di responsabilità dei consiglieri, al naturale dovere di ogni eletto. Pur se è ovviamente legittimo.

«Di certo non è un voler ribaltare le cose, è capitato anche in passato. Il problema attuale di Abete non sono i numeri, credo che lui stesse cercando il dibattito- naturale e opportuno- con le opposizioni, non una coalizione diversa».

L’amministrazione Abete può essere considerata, ad oggi, di centrodestra?

«Quando ci si presenta con liste civiche gli innesti e le diverse personalità sono più facili. Tendenzialmente direi che vira a destra o meglio al centrodestra».

Cosa hai pensato quando, l’estate scorsa, il sindaco ha scelto di azzerare la giunta?

«È stata più che altro una revisione, anche se non conosco bene i motivi che hanno portato a quella decisione: Armando Di Perna, pur riconfermato e dunque non messo alla porta, ha scelto di dimettersi. Gli altri assessori non riconfermati non ritengo avessero fino ad allora dato contributi politici degni di nota o di lode, al di là della preparazione di Giancarlo Graziani. Non rammento nulla di epico, dunque credo ci siano stati validi motivi».

Hai citato l’unico assessore non anastasiano presente nella ex giunta Abete e ancora prima in quella dell’ex sindaco Esposito: Giancarlo Graziani, titolare all’epoca dell’urbanistica. Oggi gli assessori «esterni» sono due: Stefano Prisco che ha raccolto l’eredita di quella delega e Antonio Squillante al bilancio. Da anastasiano quale sei, un tuo commento?

«Non ritengo sia un’offesa ai professionisti anastasiani, ci sono scelte che vanno al di là della residenza o del paese di origine. L’assessore Prisco è molto più fattivo rispetto al suo predecessore, ha una maniera differente di approcciare le problematiche, è più risolutivo. Sono qualità che implicano un miglioramento dell’azione amministrativa.  Squillante lo conosco meno ma è stato evidentemente scelto per le sue abilità nel redigere bilanci e per le competenze professionali nel settore».

Sarà sicuramente competente, ma per trovare professionisti validi bisognava pescare in quel di Salerno?

«Non mi occupo di economia, dunque non sono all’altezza di giudicare. In un momento così delicato per le casse comunali occorreva evidentemente un professionista all’altezza».

Dunque stai dicendo che le casse comunali sono in difficoltà?

«Sto dicendo, semplicemente, che è cambiato il modo di spendere, che i Comuni devono oggi fare i conti con l’armonizzazione contabile, che ormai si può spendere soltanto dopo che hai incassato. Ecco perché le difficoltà di ciascuna amministrazione, come dicevo, vanno storicamente contestualizzate».

Girando per il paese, ascoltando le persone, qual è la tua percezione rispetto all’impronta che l’attuale amministrazione ha dato al suo governo?

«L’impronta c’è ed è visibile, le difficoltà sono quotidiane. Chi oggi si trova ad amministrare, con il macigno della spending review, affronta continui problemi. I risultati si vedono, come per quel che concerne l’aumento della percentuale di raccolta differenziata. Un’amministrazione che lavora per apportare modifiche sostanziali ha bisogno di tempo e collaborazione da parte dei cittadini».

Cosa pensi del continuo, duro, dibattito tra ex alleati, della tensione sempre alta? Credi sia in atto una faida familiare, come dice qualcuno, o che il problema sia essenzialmente politico?

«I problemi familiari restano nelle famiglie e non credo abbiano influito più di tanto sulla situazione politica anastasiana. Alla base c’è un problema politico, il gelo è iniziato già il giorno dopo le elezioni, il resto è leggenda. Forse sarò all’oscuro di altre e diverse dinamiche, magari si credeva e prospettava altro».

Cosa vuoi dire?                    

«Che magari, non appena questa amministrazione si è insediata, non le si è dato tempo per agire in autonomia. Poi ciascuno ha le sue ragioni e non sto qui a sindacare, non è cosa che spetti a me».

Sei il segretario di «Fare Futuro per Sant’Anastasia», associazione nata ai primi di novembre e che ha avuto il suo debutto ai primi del mese successivo, l’anno scorso. Come è nato questo progetto?

«Dalla volontà di un gruppo di ragazzi, oggi ci sono circa trenta iscritti. L’associazione nasce principalmente per creare un movimento politico che guardi al futuro di Sant’Anastasia, di qui il nome».

Compreso qualche amministratore?

«No, nessuno. Essendo ovviamente vicini all’amministrazione dal punto di vista politico è naturale ci sia collaborazione, confronto, affinità».

Alla conferenza stampa di presentazione di Fare Futuro, ossia nel momento in cui il proscenio doveva essere tutto vostro per raccontarne finalità e progetti, non ti ha infastidito il fatto che il sindaco Abete abbia colto l’occasione per lanciare messaggi politici a componenti della sua maggioranza o ad avversari già ex alleati?

«No, in realtà nella scaletta era previsto un suo saluto ed era nell’aria che dicesse quel che poi ha detto. Siamo un’associazione politica e l’intervento era attinente, ha voluto esprimere in quel momento le sue reazioni, legittime, ad uno scenario in evoluzione. D’altronde, due mesi dopo quell’evento, per una sorta di coincidenza politica, anche la nostra associazione si è espressa nei confronti del personaggio sul quale il sindaco argomentò nell’occasione: l’attuale presidente del consiglio comunale, (ndr, Mario Gifuni) del quale abbiamo chiesto le dimissioni».

Con un manifesto durissimo, anche.

«Sì, perché riteniamo che il suo modo di approcciarsi alla politica crei scompiglio, alla maggioranza e per i cittadini. Il non capire da che parte stia una persona, soprattutto se ha una carica importante, dà adito ad un chiacchiericcio motivato rinfocolato da sue dichiarazioni ed interviste. Sono circolate voci diverse in merito ad una sua presunta intenzione di passare sui banchi di opposizione, non so se sia vero ma “verba volant, scripta manent”. Noi andiamo avanti, siamo convinti che quando un’associazione politica muove domande, il dovere di un politico sia rispondere. Finora non l’ha fatto».

I temi che intendete affrontare come associazione, quelli cui date priorità?

«Dai condoni alla Zona Rossa, alla riqualificazione delle antiche masserie, passando per la salvaguardia e la tutela del nostro patrimonio agroalimentare che è davvero a pezzi. Poi la lotta contro quel carrozzone politico che è la Gori, metteremo in campo una raccolta firme con gazebo presenti nelle piazze anastasiane per dare seguito al referendum pro acqua pubblica datato ormai tre anni fa. Lo faremo insieme ad un’altra associazione, Ortocrazia, e al consigliere comunale Alfonso di Fraia. Politicamente siamo una forza nuova, l’unico nostro obiettivo è dare un contributo. Se dovessimo capire che avrà fatto il suo corso o non sarà stato recepito, ne trarremo le conclusioni. È un progetto che porta via tempo, risorse, energie, ma la politica è passione, dunque non mi pesa più di tanto».

Cosa vorresti tu per il futuro di Sant’Anastasia, programmi e belle intenzioni a parte?

«Parlavamo di una sorta di faida. In gergo questa parola è usata, nelle cronache, per le lotte di camorra. È un termine brutto da associare alla politica. Dunque spero non soltanto che non lo si utilizzi più, ma anche che ci sia una distensione nei rapporti politici e personali. Non un calo di tensione, perché anche da toni crudi e forti nei dibattiti il paese può trarre giovamento, solo una distensione. Al di là di tutto, gli attori in campo sono legati da un’unica passione: la politica. La stessa politica che dovrebbe mettere da parte i sentimenti di rivalsa, che poi ci sia il dibattito è da considerarsi fonte di arricchimento».

Questo è quel che ti auguri per il dibattito politico, ma per la città cosa auspichi? Cos’è che non ti piace quando cammini per le strade di Sant’Anastasia e che, potendo, vorresti cambiare?

«Non so se l’amministrazione c’entri molto ma, idea e percezione mia, vedo molte automobili e poca condivisione sociale. Non c’è un’agorà, un centro di idee, di sviluppo commerciale o imprenditoriale, solo un continuo fuggire. Vorrei che la mia città divenisse, utopicamente, una sorta di isola felice da questo punto di vista. Nei paesi, spesso, è più semplice realizzare grandi cose, più facile che in una metropoli».

Il difetto degli anastasiani?

«Egoisti, permalosi, presuntuosi. Godono delle sconfitte altrui per poi potersi mostrare solidali. In caso di vittoria, la solidarietà viene meno».

In futuro, hai intenzione di candidarti?

«Sì, credo di sì. È una scelta che va di pari passo con l’impegno politico, una cosa quasi scontata, una sorta di compimento di un percorso. Ma sono scelte che vanno fatte al momento».

So che segui spesso le sedute di consiglio comunale. L’opposizione? Un tuo commento.

«L’opposizione è variopinta, non è unita, non c’è coesione, ognuno sembra andare per conto suo. Noto molto personalismo».

A tuo parere, in questi due anni, il sindaco Abete cos’ha sbagliato?

«Credo debba parlare di più, curare la comunicazione, nessuno può farlo meglio di lui. Dovrebbe spiegare le azioni, i provvedimenti, perché ha idee e voglia di fare. Io lo conosco bene e so che si è annullato totalmente per il paese, che sta seminando. Poi, che sia grano o frumento, i tempi di raccolta variano».

Salvo temporali…

«Il raccolto va curato e difeso dalle intemperie».

Parliamo di te, stai per tagliare un importante traguardo come quello della laurea. Ma la vita personale, sentimentale?

«Sono fidanzato con Rosa da cinque anni, lei si sta laureando in Giurisprudenza, ed è un punto di riferimento, se non l’unico della mia vita. Da quando l’ho incontrata è cambiato un po’ tutto».

Dove vi siete incontrati?

«Ad una festa di Halloween alla quale alcuni amici mi convinsero a partecipare proprio all’ultimo momento. Lei era vestita più con uno stile da carnevale veneziano, io non ero travestito per nulla. Da quel momento ci siamo visti tutti i giorni, è così da cinque anni».

Dunque, dopo la laurea, il matrimonio?

«È una mia priorità».

Ti rimane tempo per altre passioni? La lettura, per esempio…

«Sto leggendo un libro di Richard Stengel, il “Manuale del Leccaculo- teoria storia di un’arte sottile”. Una guida, una sorta di racconto della piaggeria. L’autore, che mi piace molto ed è un esperto di politica che ha lavorato anche alla Casa Bianca, dimostra che l’adulazione è un comportamento che sopravvive fin dalla preistoria, illustrando episodi documentati. Leggo molto e amo i classici, da Machiavelli, soggetto della mia tesi, ai poeti del Dolce Stil Novo, da Cavalcanti a Petrarca».

Molto romantico, quindi…

«Sì, anche se non sembra».

La cosa più romantica che hai fatto per Rosa?

«Una serata a sorpresa organizzata per il nostro anniversario, a Meta di Sorrento. Con i dettagli curati nei minimi particolari».

La musica?

«Sono un po’ pesante da questo punto di vista. Amo i cantautori italiani, preferisco la musica di Fabrizio De Andrè, Niccolò Fabi, Samuele Bersani. E poi sono un “sorcino”, fan di Renato Zero. E ovviamente di mio fratello, Ciro Corcione».

Il cinema, invece?

«Il giallo italiano anni ’70. I primi thriller di Dario Argento prima che si desse all’horror puro, il primo Pupi Avati. Di recente ho rivisto “La casa dalle finestre che ridono” alla cui sceneggiatura collaborò anche Maurizio Costanzo. Forse è il vecchio che mi attrae, il vintage, la forza di espressione di quel periodo, le ambientazioni. Oggi di film fatti così bene non ne vedo più, Avati e Argento continuano a lavorare, ma quel che ci hanno regalato prima era davvero altra cosa».

Hai asserito di sentirti uomo «di destra». Perché?

«Credo che l’inclinazione mi arrivi un po’ da mio nonno Ciro, già balilla e fanatico di Almirante. Da lì mi sono appassionato alla figura del segretario del Msi e il mio primo voto alle politiche fu per la Destra di Storace. Però, quel che non condivido con la destra di oggi è il suo legame forte con le tradizioni a tutti i costi, con la famiglia vista in un certo modo, con la fede. Io sono un ateo e spesso non mi ci ritrovo».

Certo che lavorare quattro anni in un convento domenicano, da ateo…

«Ecco, forse lì lo sono diventato di più. Quando sei immerso quotidianamente in una determinata realtà ne comprendi i limiti, le frivolezze, le facciate. La verità è che non riesco a capire l’utilità di un intermediario clericale per chi ha fede. Credo anzi che la fede si esprima prima di ogni altra cosa nel quotidiano, nei rapporti sociali: il messaggio di Dio e di Gesù è questo, per me».

Non comprendo, sei ateo o credi nel messaggio di Dio?

«Era solo una supposizione, un’idea. Non credo in Dio, non ne ho mai avuto l’esigenza. Non ho mai nemmeno avuto un segnale, un sentore, della fede. Non l’ho palpata neppure idealmente».

Quali valori dovrebbe dunque avere, per te, una destra moderna?

«Per esempio io sono contrario all’immigrazione clandestina, riporterei subito in vigore la Bossi- Fini. Ho un’idea di nazionalismo ben precisa, sono liberale dal punto di vista economico e auspicherei che una destra moderna guardasse la religione con meno attaccamento: è questo che la rende un po’ bigotta. Invece, per me, la destra è la più alta forma di riformismo che esista in politica».

Perciò immagino tu sia d’accordo con una legge che regolamenti le unioni civili e magari anche le adozioni per gli omosessuali?

«Le unioni civili sì, le adozioni per le coppie omosessuali no. Non sono di certo su posizioni clericali ma non ritengo sia, scientificamente, la strada formativa e culturale giusta per un bambino. Potrei sbagliarmi, magari due genitori entrambi maschi o femmine potrebbero essere bravi, è vero che ci sono famiglie “naturali” che buttano i figli nei cassonetti, ma non si deve generalizzare. Sbaglierò, ma è il mio pensiero».

C’è un politico nazionale che ritieni possa oggi rappresentarti?

«Non mi rivedo in alcuno. L’unica della quale potrei condividere almeno un po’ le idee è Giorgia Meloni ma spesso è troppo intrisa di populismo, non va fino in fondo. Se però oggi dovessi votare- esercitare dunque quello che allo stesso momento è un diritto come un dovere, credo che sceglierei di votare per lei».

Hai avuto modo, per tue letture o per racconti altrui, di conoscere un po’ la storia politica di Sant’Anastasia?

«Sì, ho letto i libri di Cosimo Scippa e ascoltato molti racconti».

Alla luce di quanto hai letto e ascoltato, credi ci siano uno o più politici che hanno dato molto alla città?

«Da quanto letto e ascoltato, credo che il compianto sindaco Mario De Simone abbia goduto di molta popolarità e che in tanti lo rimpiangano. Ho sentito parlare bene anche di Antonio Manno».

Non intendevo unicamente politici poi divenuti sindaci ma, magari, anche qualcuno che abbia contribuito e ancora lo faccia, alla vita e alla crescita della città.

«Sono legatissimo, abbiamo un rapporto personale e di reciproca stima, al dottore Luigi De Simone. Ecco, credo che lui abbia dato il suo contributo alla politica come alla cultura di Sant’Anastasia, portando avanti tradizioni ed un sua personale, inimitabile, maniera di intendere e veicolare la cultura. Nonostante i capelli bianchi, ritengo possa ancora dare moltissimo alla nostra città come ha fatto finora».

Ecco, a parte le iniziative molto partecipate di De Simone, non ritengo che la cultura in una realtà come Sant’Anastasia possa limitarsi a queste ultime, seppure di qualità. In questo paese si fa cultura?

«No, effettivamente c’è sempre una sorta di personalizzazione, un “primadonnismo” dilagante, un “chi mi ama, mi segua”. La cultura dovrebbe essere squadra».

E cosa potrebbe, o dovrebbe, fare un’amministrazione comunale in merito?

«Al momento mi pare si sia insediata una consulta per la cultura, credo ne faccia parte anche lo stesso De Simone, ma non so quali iniziative si intenda mettere in campo. Ritengo sia fondamentale ripartire dalla nostra storia, non solo dal culto della Madonna dell’Arco ma anche da tante altre realtà che ruotano intorno al tessuto del nostro paese».

Il culto della Madonna dell’Arco cos’è per te?

«Folklore. Avendo lavorato in Santuario anche nel giorno clou, il lunedì in Albis, per me è stato traumatico. Quel giorno non ha un inizio e non ha una fine».

Se toccasse a te, magari da futuro amministratore, cambiare qualcosa nell’organizzazione di quel giorno particolare fuori dal Santuario?

«Sarei molto cattivo, immagino. Soprattutto molto deciso. Non consentirei mai più carri, toselli, suoni molesti, permessi per bancarelle. Tenderei a regolamentare ogni cosa: in una forma di democrazia bisogna anche rispettare chi vuole vivere la sua quotidianità, a prescindere dalla festa che per molti residenti è un incubo. Sarei certamente osteggiato, ma le mie idee in merito sono queste».

Di recente hai presentato, con il collega Francesco De Rosa titolare delle edizioni Neomedia Italia, un libro che hai curato insieme a Danilo Iervolino, «La vita è adesso».

«Sì, la storia di un’adozione. Una bellissima esperienza perché Danilo ha tenuto una sorta di diario ed io ho scritto che ho fondamentalmente apprezzato non solo la spontaneità, non solo l’adozione, ma la volontà di testimoniarla, chiudendo con un invito a chi guarda all’adozione con timore, magari scoraggiato da quel che non conosce, da quel cui andrebbe incontro. Adottare un bambino è essere genitore due volte».

Vorresti farlo? Hai intenzione in futuro di perseguire quest’esperienza?

«È un’idea che mi piacerebbe molto».

Quale luogo di Sant’Anastasia ancora ti emoziona?

«Sono legatissimo al mio quartiere, Capodivilla. Amo, soprattutto all’alba o nelle sere d’estate, guardare la città dall’alto, il panorama, i campanili».

Vorrai vivere qui anche in futuro?

«Spero di sì, lo desidero. Ma se dovessi cambiare idea lo farei totalmente. Sceglierei una metropoli, sono attratto da Milano, per esempio, dal rapporto che i milanesi hanno con la loro città, dal modello».

Una metropoli. Perché Milano e non Napoli?

«Perché con Napoli ho un rapporto di amore- odio. Non riesco a godermi la città, al di là delle bellezze storiche o architettoniche non riesco mai a cogliere fino in fondo il buono di Napoli».

Cosa ti hanno insegnato i tuoi genitori?

«Potrei definirli democratici, ci hanno insegnato a comprendere le cose importanti senza rigidità, pur impartendoci un’ottima educazione nei primi anni di vita. Con il senno di poi, capisco che ci abbiano lasciato autonomamente scegliere la strada giusta, quella migliore, quella che volevamo. Ciascuno di noi figli non dovrà perciò vivere con il rimorso di non aver perseguito le proprie passioni, di non aver fatto quel che sognavamo».

Hai viaggiato molto finora?

«Abbastanza, ho visitato molte città italiane, diverse capitali europee come Madrid e Parigi».

Dove ti sei trovato meglio?

«A Lecce, mi affascina quella città barocca, l’aria che si respira, come ci si vive. Non sembra nemmeno di stare al Sud».

Quali luoghi ti piacerebbe invece visitare?

«La California, San Francisco in particolare. L’ho vissuta nei film di Alfred Hitchcock, nei suoi capolavori della cinematografia».

Ti piacciono anche le donne di Hitchcock? Bionde, sottili, raffinate.

«Sì, il mio modello di donna è proprio quello».

Altre mete, magari per un viaggio di nozze?

«Il Giappone».

Da ateo quale sei, ti sposerai comunque in chiesa?

«Mi adeguerò alle volontà della mia futura moglie».

Sempre da ateo quale sei, c’è qualcosa che consideri comunque un peccato?

«Tutto è lecito, finché sta fare bene noi stessi e non fa del male ad altri».

Un obiettivo che vuoi raggiungere assolutamente nella vita?

«Essere padre, poter raccontare qualcosa di bello ai miei figli. Sono curioso di vedermi all’opera in questa veste, di affrontare la sfida accompagnando mio figlio verso un mondo che cambia ogni giorno. Insegnargli quel che è giusto lui faccia per diventare una persona che possa farsi spazio in questa società di persone che corrono e si distraggono».

L’amicizia è importante per te?

«È un valore fondamentale, supera le barriere spazio temporali. Ho la fortuna di avere diversi amici, di essere a loro legato da un rapporto di reciproca stima, anche se non condividiamo molto tempo insieme. Tutti, e ne sono contento, hanno su di me la stessa idea circa la mia personalità, al di là di divisioni e ideologie».

Il denaro è importante?

«Purtroppo lo è, il motore di parecchie cose».

Cosa saresti disposto a fare per denaro?

«Ciò che è lecito: costruire basi solide per il mio futuro senza sopraffare altri».

Cosa invece, per denaro, non faresti mai?

«Comprarmi il favore di qualcuno o convincerlo a pensarla come me».

Hai studiato le opere e la vita di Machiavelli, hai citato anche altri autori della letteratura italiana che erano, ai loro tempi, legati indissolubilmente alla politica. Per te, cos’è la morale in politica? Cosa può e cosa non può fare un politico per potersi dire fedele ad un’etica?

«In una società che cambia, che si apre a nuovi scenari e orizzonti sociali, muta inevitabilmente anche il concetto di etica e di moralità. Un tempo i politici dovevano, prima ancora di scendere in campo, dare l’impressione di essere buoni mariti, ottimi padri, con una famiglia felice alle spalle. Oggi con la moralità bisogna fare i conti dopo, quando si amministra, dimostrando buon senso, trasparenza, un agire improntato su crismi di legalità. Per me, è un parere del tutto personale, la morale si esprime soprattutto nelle cose che non si vedono, nel rapporto quotidiano con gli altri, senza platealità. Davanti ai riflettori siamo tutti moralisti, la cosa più bella è far le cose giuste quando sai che nessuno ti guarda».

Cosa ti fa ridere, nella vita? Cosa ti diverte?

«A parte Lino Banfi e la commedia sexy all’italiana, rido per la spontaneità dei bambini. Sono molto più comici dei comici di professione di Zelig che, alla fine, non mi hanno mai fatto ridere. Rido anche per i film di Totò, che guardo magari alle tre di notte su emittenti locali. O rido all’improvviso e senza un perché, nonostante il mio carattere chiuso e introverso, per cose che a qualcun altro non sembrerebbero divertenti».

Scegli un proverbio che ti rappresenti?

«Ce n’è uno che mio nonno ripeteva spesso e volentieri: “Nun perdere ‘a minestra pe n’acino ‘e sale”. Mi rappresenta perché spesso facciamo di tutto per raggiungere un obiettivo e poi scivoliamo sulla classica buccia di banana. Ecco, io mi perdo spesso nel finale».

Per finire, se dovessi dare un consiglio al sindaco Abete, cosa gli diresti? Magari lo hai già fatto…

«Gli direi di non sfiduciarsi mai, di non lasciarsi prendere dalla stanchezza che potrebbe fargli credere di non star compiendo scelte giuste. Invece credo che lui abbia intrapreso la strada migliore, quella dell’innovazione politica. Magari non gli porterà il consenso subito, forse lo farà sentire un po’ solo in alcuni momenti, ma deve proseguire sulla sua strada. Infine, gli direi di comunicare di più, con l’elettorato e con i suoi stessi uomini».

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