IL “900 ITALIANO

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Da questo numero cominciamo a parlare di storia del “900. L”intento è duplice: sfatare la credenza che è solo materia di esperti, coinvolgere quanti più è possibile in questo viaggio.

Perchè una rubrica sulla Storia di un secolo?

Gli storici hanno sempre sostenuto –diversamente da come si suol dire- che la Storia non insegna. Hanno, altresì, sostenuto che una cultura, con radici nella Storia, può affinare notevolmente le capacitĂ  di capire il presente. Così ogni storia finisce con l”essere contemporanea, perchè chi la studia, la conosce o –semplicemente- ne parla vi porta la sua esperienza, e, se ne ha, anche le passioni del proprio tempo.

Con “ilmediano.it” –da oggi- comincia un viaggio attraverso la storia del Novecento italiano. Due sono gli intenti. Il primo è quello di correggere il senso comune, secondo il quale gli avvenimenti storici sono materia solo degli specialisti o, al massimo, una distesa per scorrerie di giornalisti e divulgatori, spesso, obbedienti alle suggestioni dei potenti, alle seduzioni dello scandalismo, alle mode correnti.

Il secondo è quello di attraversare, come un racconto, come lo srotolamento di una pellicola di un film, avvenimenti in cui ognuno –se è interessato e se vuole- può aggiungere o levare, interpolare, approfondire, organizzare diversamente, cogliere l”azione delle forze in gioco e le capacitĂ  di quanti hanno avuto ed hanno il compito di indirizzarne il corso.
C.R.

L”alba del nuovo secolo comincia per l”Italia nella giornata di capodanno con uno scandalo, che crea un aspro confronto tra i partiti politici: il generale Giuseppe Mirri, ministro della Guerra nel governo Pelloux, è costretto a dimettersi per aver esercitato pressioni sulla Magistratura a favore del deputato Raffaele Palizzolo, giĂ  consigliere comunale a Palermo, incriminato di amicizie e sostegni mafiosi ma, soprattutto, di essere stato il mandante, nel 1893, del delitto del marchese Emanuele Notarbartolo. Il nobile siciliano, vecchio sindaco di Palermo, dal 1873 al 1876, aveva conquistato la stima dei benpensanti e gli onori della cronaca per aver cercato di debellare il fenomeno della corruzione alle dogane.

Il clima surreale del nuovo secolo continua, poi, nella caldissima giornata di domenica 29 luglio 1900, quando, a Monza, il re Umberto I (1844-1900), figlio di Vittorio Emanuele II di Savoia e di Maria Adelaide d”Asburgo-Lorena, muore per mano dell”anarchico Gaetano Bresci. L”assassinio del discendente di casa Savoia –che giĂ  aveva subito precedenti attentati, nel 1878 per mano di Giovanni Passannante e nel 1897 da Pietro Acciarito– desta, dovunque e in chiunque, sentimenti di dolore, di indignazione e di impressione sconfinata. Tutti, infatti, piangono il re, che si era conquistato l”appellativo di buono, per il suo comportamento e la sua disponibilitĂ  nelle sciagure nazionali –tra cui la gravissima epidemia di colera a Napoli del 1884- che lo avevano vista in prima fila tra i soccorritori.

Umberto, però, è anche il re, che, nell”intento di voler fare dell”Italia una nazione ubbidiente, non aveva disdegnato di dare un”impronta fortemente militare ai suoi governi e di aver acconsentito allo scioglimento del partito socialista, delle Camere del Lavoro e delle Leghe Operaie. E così, come sempre capita, l”emozione suscitata dal regicidio finisce col prevalere sul ricordo della dura repressione attuata dal generale Fiorenzo Bava Beccaris ed approvata dal re Umberto I. Solo due anni prima, infatti, nel 1898, per sedare i tumulti provocati dai rincari del pane e dai bassi salari –la cosiddetta protesta dello stomaco-, il generale di corpo d”armata cuneese, non aveva esitato a sparare sulla folla in agitazione, rendendosi responsabile di un centinaio di morti ed un migliaio di feriti.
Ad Umberto I succede il figlio Vittorio Emanuele III (1869-1947), detto il “re soldato”, perchè assiduamente presente tra i combattenti della I guerra mondiale, o anche sciaboletta, per la sua bassa statura, per cui era costretto a portare una sciabola su misura, per evitare che strisciasse per terra.

L”erede al trono è raggiunto dalla notizia della morte del padre nei mari della Grecia, dove stava navigando, a bordo del panfilo Jela, con la giovane moglie Elena di Montenegro. L”intera nazione aspetta con fiducia ed apprensione l”indirizzo politico del nuovo sovrano. Dei sentimenti degli italiani si fa interprete Gabriele D”Annunzio, che così saluta il nuovo re: “T”elesse il Destino/ all”alta impresa audace./Tendi l”arco, accendi la face, /colpisci, illumina, eroe latino!”

L”11 agosto 1900 il re si presenta alle Camere con un discorso che riscuote consenso e simpatia. Vittorio Emanuele III, infatti, riesce a raggiungere il cuore del popolo, dicendo: “Impavido e sicuro ascendo al trono con la coscienza dei miei diritti e dei miei doveri. L”Italia abbia fede in me come io ho fede nei destini della patria [:] A noi bisogna la pace interna e la concordia di tutti gli uomini di buon volere. Raccogliamoci e difendiamoci con la rigorosa loro applicazione. Monarchia e Parlamento procedano solidali in quest”opera salutare”.

Con questo primo pezzo, e l”avvio della rubrica “Pillole di “900” inizia da oggi la collaborazione del prof. Ciro Raia con ilmediano.it.
Dirigente scolastico, ricercatore, storico, autore di numerosi libri, Ciro Raia, da par suo, ci parlerĂ  dei fatti grandi e piccoli che hanno determinato la Storia del “900, col chiaro intento di farne prendere possesso anche a coloro che non sono storici di mestiere. Sullo sfondo, l”Italia così come andava formandosi, con l”eterna e mai risolta questione meridionale, che ci tocca molto molto da vicino ma che è andata via via scomparendo dal dibattito politico nazionale.

CHI GOVERNA PER DAVVERO LE NOSTRE CITTÁ:

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Al via la rubrica a cura del prof. Amato Lamberti. Si chiamerĂ  “CittĂ  al setaccio”, e si occuperĂ  del modo in cui viene gestito e governato il territorio dalle pubbliche amministrazioni.

“CittĂ  al setaccio”: il titolo della rubrica è giĂ  un programma che non ha bisogno di molte spiegazioni. Bisogna però dire che si fonda sulla mia esperienza di politico e di amministratore, prima al Comune di Napoli, dal 1993 al 1995, come Assessore alla NormalitĂ , e, poi, dal 1995 al 2004, alla Provincia di Napoli, come Presidente dell”Amministrazione provinciale. Se non avessi fatto queste esperienze, forse, non continuerei ad occuparmi del modo in cui viene gestito e governato il territorio da pubbliche amministrazioni la cui forza sta nel mandato elettorale.

Un mandato, però, quasi sempre tradito sul nostro territorio napoletano e campano. Basta guardarsi intorno e confrontare le condizioni del nostro territorio rispetto a quelle di altri territori, in Umbria, in Toscana, in Veneto, in Trentino, in Emilia. Qui, il disordine, l”incuria, l”affastellarsi senza regola di costruzioni, i rifiuti sparsi dovunque; lĂ , l”ordine, la cura del paesaggio, le strade pulite e ben mantenute, le costruzioni ordinate, ben tenute, con una identitĂ  architettonica ed urbanistica. Perchè questa differenza? Perchè quei territori sono governati da amministrazioni attente e che hanno cura dei beni collettivi, mentre i nostri territori, non essendo governati, nel vero senso della parola, da amministrazioni pubbliche, sono abbandonati alla speculazione edilizia, all”abusivismo, ad una imprenditoria primitiva ed incolta, quando non direttamente camorrista.

Gli amministratori ci sono, ma non governano niente, perchè, per loro, governare e amministrare non significa mettere delle regole e farle rispettare nel nome degli interessi collettivi, ma stare a rimorchio delle iniziative che gli stakeholder -i portatori di interessi- più spregiudicati, portano avanti senza nessuna attenzione per gli interessi della comunitĂ , per la qualitĂ  della vita, per la tutela della memoria storica, per la salvaguardia dell”ambiente e del paesaggio. Naturalmente in questo stare a rimorchio, politici e amministratori, ci guadagnano sempre, se non altro in termini di voti e di consensi, perchè i soggetti che fanno scempio del territorio sono anche quelli economicamente più forti, quando non sono quelli che governano, con la forza della paura, realmente il territorio.

Questa dipendenza delle amministrazioni pubbliche, elette dal popolo, dai poteri forti, economici e/o criminali, che controllano la vita stessa della gente e del territorio, è la ragione dell”arretratezza, civile prima che economica, delle nostre cittĂ . Dove non ci sono regole nessuno sviluppo è possibile. Dove regnano paura, violenza, incertezza del futuro, anche i costumi delle persone si inselvatichiscono e i rapporti sociali sono regolati dalla prevaricazione e dalla corruzione. Il tentativo che voglio fare è semplicemente quello di mostrare che “un altro mondo è possibile”, dove regnino bellezza e armonia e non clientele, corruzione, camorra.

LA POLITICA E LO SCUDO OPACO DEL GARANTISMO

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La magistratura sta mettendo in luce la scarsa qualitĂ  dei politici meridionali e l”inquietante rapporto con gli imprenditori. Strumento economico per rinforzare la rete clientelare.

Da un po” di tempo la lettura quotidiana dei giornali mi lascia semplicemente esterefatto e con la convinzione di non capire più niente. La Iervolino continua a parlare di rimpasti in Giunta, ma non ci spiega mai a cosa dovrebbero servire, visto che sul tavolo non c”è alcuna proposta, non dico di rinnovamento, ma di decente inversione di tendenza di una esperienza unanimemente giudicata fallimentare. Si vuole mantenere in vita una sindacatura fino al suo naturale epilogo per evitare un ricorso alle urne che si presume catastrofico per l”attuale maggioranza?

Lo si dica senza troppi giri di parole, almeno i napoletani si metteranno il cuore in pace sapendo che per altri due anni dovranno continuare ad arrangiarsi, puntellando tutto quello che è possibile puntellare, in attesa di tempi migliori.
Il Partito Democratico punta sulla formazione, in particolare alla legalitĂ , per rinnovare i suoi dirigenti e il suo personale politico e amministrativo, ma non spiega come farĂ  a prendere voti senza il concorso dei “capibastone” che finora hanno assicurato la sopravvivenza del partito nonostante tutti i fallimenti, le incapacitĂ , gli scioglimenti delle amministrazioni per infiltrazioni camorriste, le inchieste della Magistratura per malversazione, collusione, concussione.

Almeno avessero dato il segnale che nessuno degli inquisiti in questi ultimi quindici anni, compresi tutti quelli mandati a casa per scioglimento dei Consigli Comunali, sarebbe mai più stato candidato, ed anzi, sarebbe stato cacciato dal partito. Avrebbero rinnovato, in un sol colpo, il 50/60 % del partito, guadagnando anche il consenso dell”opinione pubblica. Ma hanno pensato ai voti che gli espulsi si sarebbero portati appresso e, difendendosi dietro lo scudo opaco del garantismo, non l”hanno fatto, nè lo faranno.

Gli opinionisti, dal canto loro, continuano a insistere sul personale politico e amministrativo meridionale che, secondo le parole di Nicola Rossi, è di scarsa qualitĂ , senza mai interrogarsi sulle ragioni di una selezione che sembra sempre al rovescio ma finisce per assicurare maggioranze consiliari, posti di direzione e di comando, ma anche di manovra e di allocazione mirata delle risorse disponibili, come dimostra il fitto intreccio di segnalazioni e di raccomandazioni che viene fuori dalle ultime indagini della magistratura, a Napoli, come a Pescara e a Potenza.

Sembra quasi che nessuno, forse per non sporcarsi con le volgaritĂ  del quotidiano, voglia prendere coscienza del fatto che, nel mezzogiorno, fare politica significa occuparsi della propria rete clientelare, o se volete, di sostegno elettorale, per consolidarla ed allargarla.
Fondamentali, in questo quadro, risultano gli imprenditori, perchè sono grandi raccoglitori di consensi e di voti, possono sostenere economicamente le campagne elettorali, possono mettere a disposizione posti di lavoro che sono il pane per nutrire e far crescere la clientela, possono allargare l”area delle conoscenze del politico e far crescere il suo prestigio anche all”interno del partito.

Naturalmente, per il politico, questo rapporto con gli imprenditori, così elevato in termini di benefici, ha costi egualmente elevati. Ma i nostri politici, meridionali e non, sono tutti diligenti allievi del Machiavelli: il fine giustifica sempre i mezzi. Si possono correre dei rischi con la magistratura ma non sono mai certi e duraturi, e, comunque, non intaccano il consenso accumulato che, anzi, spesso si accresce, quasi che la condanna fosse un blasone.

Somma Vesuviana, la prima pietra della nuova scuola a Don Minzoni

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Di seguito, l’intervento della Dirigente scolastica del 2° Circolo, dott.ssa Rosaria Cetro, in occasione della cerimonia per la posa della prima pietra.   “Rivolgo a Voi tutti il mio piĂą affettuoso saluto e ringraziamento per aver reso possibile tutto questo. Ringrazio il Sindaco per aver tenacemente sostenuto l’ampliamento della scuola Don Minzoni e quanti hanno collaborato con lui; in particolare l’assessore all’istruzione Vincenzo Carrella, l’assessore ai lavori pubblici Chiara Di Mauro, l’architetto Mena Iovine, responsabile dell’ufficio tecnico dl Comune. Ringrazio inoltre per la partecipazione le autoritĂ  civili, militari e religiose, i genitori e tutto il personale docente e non docente. Qualcuno ha scritto “FelicitĂ  è veder crescere qualcosa” e noi oggi siamo felici perchĂ© vedremo nascere e crescere sotto i nostri occhi la scuola tanto sognata, la piĂą bella scuola elementare di Somma Vesuviana. Costruire una scuola è il miglior investimento che un’Amministrazione comunale possa fare. Significa investire in Cultura e Conoscenza e, quindi, puntare su un progetto per il futuro dei giovani. Educazione ed istruzione sono il bene piĂą prezioso, l’unico che non teme la svalutazione delle crisi dell’economia; è un bene prezioso perchĂ© all’occorrenza non si può acquistare. Bisogna costruirlo nel tempo e per costruirlo i giovani hanno bisogno di una famiglia sana e di una scuola di qualitĂ . Per fare una buona scuola, oltre a personale docente e non docente preparato, occorrono spazi adeguati; ambienti sani e sicuri, ariosi, luminosi, silenziosi favoriscono il miracolo dell’apprendimento. Oggi siamo piĂą vicini all’Europa, abbiamo fatto un passo avanti nella realizzazione degli obiettivi che l’Europa ha fissato per lo sviluppo della societĂ  della conoscenza, dando la prioritĂ  a un’istruzione adeguata per tutti. Solo così sarĂ  possibile costruire un mondo piĂą civile e piĂą giusto dove vivere in pace”.

LA CITTÁ DEL DANARO

La politica ha perso il contatto con la realtĂ  sociale concreta. Usa la quantitĂ  come metro di valutazione, per cui un problema esiste solo se un sondaggio lo rileva. Manca la lungimiranza.

Per Martin Lutero i soldi sono lo sterco del diavolo, per noi rappresentano una finestra sulla dimensione della possibilitĂ  oppure uno scopo o, ancora, la condizione per non perdersi nei meccanismi sociali a cui, volenti o nolenti, dobbiamo adeguarci; infine essi possono essere la rappresentazione più precisa e plastica delle nostre cittĂ .
La Paperopoli disneyana e la regione antica della Frigia, il cui re era Mida, sono forse i due spazi metaforici che possono dirci qualcosa della cittĂ  del denaro.

La prima cittĂ , compagna delle lunghe mattinate al mare, leggendo i fumetti di Zio Paperone e del povero Paperino, ci offre l’esempio di una ricerca spasmodica del guadagno, dell’arricchimento che non genera, però, alcun cambiamento: i ricconi continuano ad essere tali e si scannano fra di loro come Paperone e Rockerduk per un cent; i poveri imbecilli, nonostante tutti gli sforzi, continuano ad essere tali, come Paperino, che cerca di invertire, almeno una volta, ma invano, la direzione del suo amaro destino di nullatenente.

Intorno a loro un mondo sempre uguale, destinato a perpetuare una realtĂ  senza scopi, in cui ciascun personaggio assume un ruolo del quale è prigioniero per sempre. Il simbolo del dollaro non ha alcuna attinenza con i soldi guadagnati per vivere, ma solo un feticcio il cui valore risiede in sè stesso.
Mida e la sua tragica e misteriosa storia, ci accompagna, invece, in un altro aspetto della cittĂ  del denaro: il desiderio del possesso. La preghiera di Mida a Dioniso riguarda, infatti, la trasformazione in oro di tutto ciò che egli tocca. Il desiderio di cambiare la realtĂ , il sogno di poter imprimere una svolta al cammino viene realizzato non con lo sforzo umano, ma con l’illusione, o peggio con la velleitĂ .

Cosa può celare l’insistenza sul toccare? Mida avrebbe potuto chiedere di far diventare oro i suoi pensieri o tutto ciò che avrebbe baciato o altro. Invece la sua richiesta si ferma sul tocco delle mani. Perchè? Forse perchè il denaro non fa parte del regno dello spirito; è nemico dell’invisibile amore per la gratuitĂ , si oppone all’impagabile gusto di fare bene le cose (i latini lo chiamavano, pensate un po’, studium), senza alcun contraccambio. Non a caso a Mida spunteranno, in un altro bellissimo mito, delle orecchie d’asino: il possesso bruto delle cose ci allontana dalla preziositĂ  degli oggetti, dalla voce della materia quando è accompagnata da un soffio di pensiero, “ci rende sordi a ciò che muta per la grazia del dono”. E le nostre cittĂ ? Cos’hanno della cittĂ  del danaro?

Sono tanti gli aspetti che potrebbero essere indicati. Ci limitiamo ad alcuni.
Chiedete ad un giovane diciottenne cosa desidera di più o qual è il cambiamento a cui più tiene nel varcare la soglia della maggiore etĂ ; vi risponderĂ  l’automobile. I sogni di molti dei nostri giovani, sono i sogni a cui noi li abbiamo educati: il ruolo sociale dipende dalla quantitĂ  di soldi che abbiamo e, ovviamente, dalla sua visibilitĂ : l’automobile, la griffe, lo stile di vita.
Direi di più: il metro di valutazione è quasi sempre la quantitĂ ; il demone della quantificazione.

Perfino i nostri politici ed (ahimè!) non solo il giovanilista Berlusconi, paperone – caimano, che inquina la nostra vita politica, ma anche politici avveduti e più dimessi, sono ossessionati dai sondaggi. Per la cittĂ  del denaro i problemi sono tali solo se i sondaggi li indicano come tali; per cui se la disoccupazione attira l’attenzione degli intervistati è un problema, altrimenti la possiamo soppiantare con le notti in discoteca di qualche vitellone, o il doping di qualche atleta. E questi ultimi problemi saranno nell’agenda del Parlamento.

ATENE E LE NOSTRE MISERE CITTÁ DELLA BELLEZZA

I nostri Enti Locali pensano che le gare di bellezza siano progetti culturali. In realtĂ , a spese dei contribuenti, inebetiscono i giovani con quanto di peggio offre la TV.

Il cuore profumato della cittĂ , spazio sacro di tutta la grecitĂ  è l’Acropoli, spianata dall’intelligenza e dal fervore per ingraziarsi gli dei.
Atene rappresenta, da quando il tempo è diventato la misura della creativitĂ  umana, l’archetipo della bellezza, intessuta dalle trame dei racconti mitici e dalle tradizioni epiche dell’ulivo sacro ad Atena.

Nell’elenco delle cittĂ  invisibili la cittĂ  di Pericle rappresenta il sogno di una democrazia partecipata, che governa l’aspirazione alla bellezza, cioè alla profonda propensione umana a percepire come bello ciò che è giusto. Infatti per i Greci la kalokagathìa è una parola che condensa insieme il bello e il buono. La bellezza e l’armonia, che ne è il suo risultato, migliorano il mondo e quindi sono giuste, anzi definiscono la giustizia. La visione estetica della vita è indissolubilmente legata alla visione etica; non a caso Dostoevskij attribuisce alla bellezza l’incarico di salvare il mondo dalla turpitudine del male.

Dalle vette del dibattito, così vivo nella nostra societĂ , passiamo alle depressioni stagnanti e putride delle nostre cittĂ  visibili, in cui la bellezza è tramite di ambiguitĂ  e di perdita del senso del divino in noi.
A Somma, a Sant’Anastasia e in altri paesi, per esempio, la progettualitĂ  cosiddetta “culturale”, a spese dei contribuenti, pensa che aiutare i giovani a maturare la dimensione estetica, sia organizzare gare di bellezza: le selezioni del più bello d’Italia e della Miss Italia, la proposta dei momenti peggiori di trasmissioni televisive, vergognose speculazioni diseducative, che hanno come scopo l’applauso di una folla omologata e sprovvista di strumenti culturali.

Il mercato di corpi, le allusioni volgari, le atmosfere ambigue e goderecce vengono contrabbandate come legittima aspirazione di ragazzi e ragazze, per i quali l’unico scopo della vita è assomigliare a questo o a quel modello diffuso dallo scemenzario televisivo.
L’aspetto grave della situazione è che il disegno di inebetire le giovani generazioni viene proprio dagli enti locali, a volte dagli istituti scolastici, i quali si vantano di imprimere alle comunitĂ  un moto di rinnovamento giovanile. Il tutto immerso nello sfasciume urbanistico e nell’abbandono dei luoghi, dei monumenti, delle scuole della cittĂ  che maggiormente avrebbero bisogno di essere curati.

Come si vede, educare alla bellezza non si esprime nell’educare al bene e al giusto, ma semplicemente nel perpetuare un inganno modaiolo ai danni della gioventù. Sono pochi i giovani che si accorgono del tentativo in atto di inquinare il loro immaginario, per i più tali povere iniziative rappresentano un’occasione di sentirsi vivi, mostrandosi.
E quale peggiore ingiustizia è quella di chi, avendo il compito di restituire ad una comunitĂ  la sua dignitĂ  morale ed estetica, la obbliga ad alimentare la nequizia dell’idiotismo becero e vacuo della velina di turno?

HINTERLAND, IL PROBLEMA É NON PENSARE PIĂą

Viaggio insieme ai giovani turisti delle cittĂ  invisibili per capire dove stiamo andando. Nella valigia un pensiero minimo ma non lacrime e trionfi “da televisione” . La rubrica le cittĂ  invisibili si è riempita di tante parole e di qualche silenzio, mi tiene compagnia da un bel po’ di tempo e mi aiuta a riflettere meglio sulle tante questioni che investono la nostra esperienza quotidiana. Un forum nasce quando una piazza diventa sensibile alla discussione e i suoi cittadini pensano che condividere i problemi sia giĂ  l’inizio di una risoluzione. Così sta accadendo con il problema dei rifiuti, che risveglia il bisogno di essere protagonisti delle scelte di un paese, ma accade meno quando i problemi, pur vissuti da ciascuno, non sono ancora percepiti come problemi collettivi. Perciò è il caso di continuare una riflessione che apra un dibattito educativo sulla partecipazione e la cooperazione, soprattutto quando essa è destinata ad esprimersi in un ambito legato alle problematiche giovanili. In questa prospettiva facciamo riferimento ai modelli socioculturali che i nostri giovani e noi stessi utilizziamo per dare un significato alla nostra quotidianitĂ . Un modello culturale è alla base della costruzione di una comunitĂ , a tal punto che analizzare i problemi della collettivitĂ  vuol dire, essenzialmente, affrontare il discorso del modello antropologico sotteso ai comportamenti significativi di quella collettivitĂ . Il modello è subordinato alla definizione delle abitudini sociali, dei modi tipici di sentire, di pensare e di agire. Tali schemi, costruiti lungo il passare delle generazioni, vengono trasmessi ed appresi attraverso la mediazione di simboli, di archetipi, di metafore, che presto diventano patrimonio comportamentale della comunitĂ . Per esempio: la pace e la guerra, la comunicazione, la competizione, lo scambio economico. Per questo motivo è essenziale affrontare ed approfondire tali modelli per comprendere dove stiamo andando, come ci evolviamo e, soprattutto, quali sono le rappresentazioni che di sè stessi danno i giovani, protagonisti assoluti dell’incarnazione dei modelli socioculturali. Seguendo lo scrittore Italo Calvino, che ha dato ad uno dei suoi libri piĂą famosi, il titolo Le cittĂ  invisibili, possiamo tentare, nella prossima serie di articoli, di svolgere come delle relazioni di viaggio immaginarie, che possano aiutarci a capire e a pensare le ragioni di ciò che ci accade intorno, convinto, come sono, che oggi il problema dei problemi è non pensare piĂą. Scrive Calvino, riferendosi all’imperatore Gran Kan, che insieme a Marco Polo, è il protagonista del libro: “A questo imperatore malinconico che ha capito che il mondo sta andando in rovina, un viaggiatore visionario racconta di cittĂ  impossibili.”1 Pensare è assumersi una responsabilitĂ ; infatti chi non pensa, non è colpevole di ciò che fa, come suggerisce perfino il libro dei libri; ma chi pensa, deve assumere su di sè il peso dell’impegno. “Tu sei responsabile per sempre delle cose che ami” dirĂ  la volpe al Piccolo principe ed Alioscia, il protagonista de “I fratelli Karamazov”, si chiederĂ  spesso perchè il male vince lì dove il pensiero perde. Allora cercheremo di riprendere l’abitudine ad un “pensiero minimo”, ma controcorrente e forse antipatico, perchè non in linea con le lacrime e i trionfi di “Amici” o con le scemenze dei tanti “pacchi”, che andiamo aprendo nella nostra esistenza, nell’illusione di trovarci soluzioni che spettano, invece, solo a noi. Indagheremo le cittĂ  del senso, forse perchè “sono un sogno che nasce dal cuore delle cittĂ  invivibili (:) Le cittĂ  sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio”2 , bisogna esplorarle, in maniera da individuare non le risposte, che servono a ben poco, ma le domande giuste da porci per capire i nostri giovani e noi stessi. Noi che abbiamo attraversato la giovinezza con l’inquietudine di una fiera vigorosa, ma braccata. 1 Calvino I. le cittĂ  invisibili, ed. Oscar Mondadori p. VIII 2 Ibidem, p.IX

QUELLO CHE UN POLITICO DEVE SAPERE

Il politico deve consumarsi per gli altri. Non deve dormire la notte, smetterla di vestire i panni da educatore. Deve rendere protagonisti i cittadini.

Il dopo elezioni assomiglia al ritorno dalle vacanze. Durante il periodo estivo, che strappiamo al lavoro, tutto sembra possibile; i propositi di cambiare e di essere più attenti a questo e a quello aumentano, quasi come se avessimo tanta di quell’energia accumulata da poter affrontare qualsiasi sforzo o fatica.
Quando si tratta di riprendere poi il lavoro ci accorgiamo che cambiare risulta un’impresa deprimente e difficilissima.
Uscendo dalla metafora, ci ritroviamo dopo i giorni dell’euforia elettorale, a dover fare i conti con i problemi di sempre, che intanto stavano lì ad aspettare che noi finissimo di discutere e di discettare su rifiuti, trasporti, scuola, servizi sociali, sicurezza, imposte.

Il buon governo è tipico di chi avvia un ragionevole percorso di educazione al cambiamento e non di chi cerca di risolvere i problemi, eliminando il disagio che da essi promana, senza considerarne gli effetti. Faccio alcuni esempi.
1° esempio: piano traffico. Il traffico automobilistico a Somma è una piaga; non c’è stata alcuna volontĂ  politica finora di affrontare una necessaria educazione alla valorizzazione del territorio, incentivando le occasioni di incontro, promuovendo la pedonalizzazione permanente delle strade più importanti. Perchè? Perchè si ritiene, a torto, che l’auto sia un indispensabile oggetto di visibilitĂ  e un importante simbolo di ricchezza. Dove il prestigio che origina dall’onestĂ  e dalla competenza viene sostituito con l’ostensione pacchiana dell’arricchimento, non c’è multa o striscia blu che tenga:
io sono la mia macchina.

I politici che guardano un po’ più in lĂ  del loro naso, a costo di farsi defenestrare subito, dovrebbero avere il coraggio di educare i cittadini, anche con decisioni al momento impopolari, ad usare l’auto solo quando è necessario, impedendo lo scempio quotidiano (soprattutto il sabato e la domenica) di una cittĂ  sotto assedio, in cui i pedoni adulti e ragazzi, sono costretti a nascondersi quasi e a non poter godere del diritto ad incontrarsi. I maggiori controlli (multe e articolazione traffico; giace in Consiglio il Piano Traffico da almeno quattro anni) che sarebbero comunque i benvenuti, visto che ad una certa ora la cittĂ  è consegnata nelle mani dell’illegalitĂ , possono essere proficui solo a condizione che ci sia un orizzonte politico più ampio e disinteressato.
A volte infatti, sono proprio i politici i primi a sfoggiare l’arroganza di automobili come miserevoli e pietosi messaggi di potere.

2° esempio: i rifiuti.
Si può affrontare l’emergenza, quando essa lo è. Nelle nostre cittĂ  l’emergenza, invece, è quotidiana. Un politico, perchè senza dubbio la prima responsabilitĂ  in questo caso è del politico e non dell’educatore o del comune cittadino, deve affrontare l’emergenza all’interno di un ambito educativo, sviluppando itinerari di responsabilizzazione attraverso un accompagnamento capillare alla realizzazione di buone pratiche quotidiane: coinvolgimento delle scuole nell’elaborazione del compostaggio, dando vita ad Osservatori Giovanili di Monitoraggio e Controllo sui siti di stoccaggio, incentivando chi è più virtuoso, avviando circoli di quartiere, di condominio, di piazza permanenti per concertare con le forze politiche il da farsi.

Un vero politico è chi pensa a come rendere protagonisti i cittadini che ha avuto in sorte di governare e non il narciso di turno, pronto a mettersi all’asta al primo offerente.
Auguro sinceramente ai nuovi amministratori di non dormire più la notte pensando al da farsi e di sentire il morso della coscienza ogni volta che penseranno a se stessi e non al bene delle persone, delle pietre e della storia di Somma. L’incarico che hanno ricevuto è sacro perchè la loro persona non può meritarsi null’altro che consumarsi per gli altri.

LA SPERANZA : IN TEMPO ELETTORALE

Nella campagna elettorale si è visto di tutto e ormai, in queste occasioni, è elevato a sistema la febbre dell’apparire. La speranza di scegliere il bene è nelle nostre mani:

Il tempo elettorale è un tempo di scelte, un tempo quindi prezioso, per chi comprende che ogni tanto ci viene data l’occasione di essere veramente protagonisti di un evento. Si desidera continuamente manifestare la propria centralitĂ ; il nostro mondo vive in una parossistica competizione al mostrarsi, all’affermarsi e allora dovrebbe essere questa l’occasione per sbucare fuori e mettere in atto ciò che si sogna: diventare star per un momento.

Il protagonismo di cui parlo, diciamo, costituzionale, è molto più realistico di quello camuffato e inverosimile che fa balenare la televisione o i circuiti di internet; infatti questa volta si tratta del voto e non di una comparsata, di una vuota apparizione ad una festa mediatica; di un servile applauso in mezzo a centomila altri vuoti applausi. No, questa volta è un protagonismo serio, gravido di conseguenze civili non sempre calcolabili. È l’ora di una profonda sfida a se stessi: ho la capacitĂ  di scegliere il bene?

Eppure si ha l’impressione che, proprio in queste circostanze, i più si arrendano ad indegni riti di compravendita, compromettendo la possibilitĂ  stessa di realizzare un progetto serio. In effetti l’abitudine a spettacolizzare le propria esistenza viene espressa in nome della propria singola visibilitĂ  e non in nome di una compartecipazione, in riferimento ad una pluralitĂ  di altri uomini e di altre donne con i quali si costruisce un insieme ordinato di persone che si chiama comunitĂ .

Nella campagna elettorale, che si è appena conclusa, si è visto di tutto: facce prestate al niente, che campeggiavano su miserabili manifesti; duelli individuali senza senso perchè senza legami con un progetto di vita; frasi strampalate che non hanno nemmeno dignitĂ  di slogan, men che meno di pensiero; nessuna seria elaborazione, ma solo una specie di febbre dell’apparire che sembra aver colpito tutte le generazioni e tutti gli strati sociali.

Coltiviamo ancora la speranza che non tutti abbiano gestito questo tipo di comunicazione unidirezionale con al centro il pronome personale IO; non sono in grado di poter svolgere una valutazione generica e credo che comunque in molti di quelli che si sono candidati alberghi la fiducia di veder prendere sul serio l’altro pronome di prima persona, quello plurale però: il NOI.
Bisogna scongiurare l’incrocio di due opposti egotismi: quello di chi si candida senza possedere gli strumenti della competenza, solo per un’esperienza di esaltazione individualistica, e quello di chi andrĂ  a votare, elettore non di un sogno, ma di un interesse pur esso individualistico.

Secondo Ricoeur “la speranza viene a noi vestita di stracci, affinchè le possiamo confezionare un abito di festa”, per dire che la sua origine non è in noi, ma ne siamo come posseduti. Chi di noi infatti può confidare totalmente in se stesso? Eppure essa è affidata alle nostre mani, perchè possiamo seminarla con gli strumenti dell’impegno personale e di una politica agita come una sorta di ascesi monastica, una disinteressata visione profetica.

PROVE DI SPERANZA IN POLITICA

Votare significa scegliere. Per scegliere bene i cittadini devono sentirsi legati alla propria comunitĂ ; diversamente, si fanno solo gli interessi propri o di un piccolo gruppo.

Ciascuno di noi si trova spesso a dover assumere l’onere di scelte, che possono anche rivelarsi sbagliate. In fondo qualsiasi decisione che prendiamo può essere verificata solo dopo che l’abbiamo presa. Prima si può solo ipotizzare una conseguenza, un vantaggio, un danno, una ricaduta in termini sociali o economici, ma non più di una previsione.
Ora, nell’ambito politico, che è il più importante nella vita di una comunitĂ , forse anche più di quello educativo, fare delle scelte è ancora più complicato; infatti c’è bisogno di una lungimiranza così accentuata che non sempre si riesce a sostenere. Il politico, diceva Giorgio La Pira, è un “architetto del bene comune” e, in quanto tale, deve avere vista lunga e non lasciarsi ingolfare nella rete dell’immediato.

Le elezioni a Somma Vesuviana e nel Paese possono essere uno spunto ottimo per poter verificare la capacità di una comunità di saper scegliere oggi ciò che si svelerà nella sua bontà solo domani.
La verifica non è quindi solo riferita ai politici, che sono in lizza per guidare l’amministrazione di una cittadina o di una nazione, ma riguarda soprattutto i cittadini, pietre della costruzione sociale. E ogni cittadino ha bisogno di percepirsi come legato ad una serie di relazioni comunitarie, che ne fanno il centro di una sequenza infinita di scelte.

Se invece ciascuno ha di sè un’immagine singola, di isola autoreferenziale, bastante a se stesso, allora è chiaro che il fare politica vuol dire realizzare solo i propri interessi o gli interessi di un piccolo gruppo.
La riflessione sulla speranza, che abbiamo cominciato la volta scorsa, trova in questo aspetto uno dei punti nevralgici della sua ragion d’essere.
Possiamo sperare se organizziamo le spinte comunitarie al miglioramento di un territorio; altrimenti sperare vorrĂ  dire semplicemente aspettare che il vento della fortuna giri dalla propria parte.

Nel periodo pasquale tale tipo di affermazione diventa ancora più cogente perchè la Pasqua è la celebrazione di un annichilimento, di un fallimento radicale, a considerarlo nel breve termine, che impedisce ad ogni uomo di pensare ad una speranza da slogan, fosse anche quella abusata che la speranza è dei giovani. L’abissale scandalo del sepolcro di Palestina si riscatta solo perchè ciò che salva nella vita è la coscienza di poter fallire e quindi la disponibilitĂ  a ricominciare con gli altri: la speranza è l’esserci, il partecipare, lo scommettere non sull’io ma sul noi.

Risorgere dalla morte dell’illegalitĂ  e dell’ingiustizia nei confronti dei piccoli: i bambini, i giovani, i deboli, i poveri, i senza strumenti, non è altro che coltivare l’umanitĂ  in noi, diventare custodi di un bene che appartiene a tutti e lasciarlo ai nostri figli.
Se i candidati alle elezioni e i loro elettori ponessero mente a tanto nobile impegno eserciterebbero realmente la loro sovranitĂ .