Somma Vesuviana, 2021: ancora Crisommole…

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Dal  Presidente della Pro Loco Somma Vesuviana Franco Mosca riceviamo e pubblichiamo

 

E’ il caso di proporre qualche riflessione per tentare di  capire come e dove siamo messi. Non parlo agli agricoltori: hanno già tanti problemi e non è l’occasione  per creargliene altri. Mi rivolgo devotamente  alla comunità tutta di cui ormai quei pochi coltivatori pur fanno parte.

Partiamo dai greci che nell’ottavo secolo a. C. fondarono Partenope? O partiamo dai bizantini che come forse sapete  sono stati  di casa a Napoli e a Somma fino all’undicesimo secolo d. C.? Nell’uno e nell’altro caso parliamo dunque di uno-due-tre millenni fa. E la storia di “Crisommola” affonda dunque nei millenni. E sì. Altrimenti non riusciamo a comprendere di cosa ci stiamo occupando. “Cruson Melon”. Frutto d’oro. Ovvero dal greco antico: Crisommola. Secondo questo etimo è probabile che sia arrivata qui attraverso i greci (fondatori di Cuma e poi Partenope?). Ed i romani l’hanno già trovata qui come tante altre belle cose. Oppure è arrivata dall’Oriente  insieme al culto di Dioniso. Perché no? E stiamo sempre nell’ambito di qualche millennio fa.

Una cosa è certa: le “crisommele” ed i napoletani insieme ai sommesi si conoscono e si frequentano… da decine di secoli. Sicuramente prima che gli arabi abbiano portato le “albicocche” nel resto della penisola diversi secoli dopo. In arabo al-barquq. Ma forse i diversi nomi indicano frutti diversi.  Nel 1583 il grande napoletano Giovanbattista Della Porta  descrive  nel suo Pomarium  le “bericocche”, ben distinguendole dalle  nostre già pregiate“crisommele”. Della Porta  racconta come  quest’ultime hanno la comoda  caratteristica di spaccarsi in due parti  liberando di netto il nocciolo. Le bericocche no.

Con “Crisommole” dunque ci stiamo occupando non di un qualsiasi frutto delle nostre campagne ma di qualcosa molto radicato nella storia di questi luoghi e molto radicato nella cultura dei nostri antenati. E gli attuali pochissimi produttori di crisommele sono solo gli ultimi depositari-coltivatori di una catena lunghissima di  “selezioni” naturali  di prelibatezze gastronomiche  nate e sapientemente moltiplicate sulle pendici vesuviane.  Con infinite varietà, ognuna con un pregio particolare e con nomi  precisi,  o di provenienza della pianta: don Aniello, Vicienzo ‘e Maria, prevete, ottavianese;  oppure  di descrizione del frutto: cerasella, pellecchiella, boccuccia, ecc. Un patrimonio enorme di biodiversità incredibile frutto di fortunate importazioni, clima adatto, condizioni pedologiche perfette ma anche di sapienti pratiche di sperimentazioni contadine tramandate di generazione in generazione. Un lavoro colossale, irripetibile, purtroppo disperso in pochi decenni.

I guai di questa produzione mettono a rischio dunque non i quattro  cinque coltivatori superstiti ma scuotono una caratteristica culturale di un popolo intero e la sua storia millenaria. Dunque non è un problema solo di produzione. E il nostro disagio non deriva solo dalla crisi del settore ma dalle connotazioni antropologiche collegate. Se le “crisommole” saranno soppiantate dalle  generiche “albicocche” dovremmo dire addio definitivo ad una civiltà. Tanto per chiarirci qui si potranno coltivare benissimo anche cultivar forestiere (aurora, ninfa, tirintos, ecc) meglio se virus esenti, ma alle nostre cultivar cosa sta accadendo? Le  prevete, le don Aniello, le  boccucce scompariranno definitivamente? Si potranno salvare? Cosa bisogna fare? E’ vero che ormai  il problema sharka (plum pox virus) riguarda anche le susine e le ciliegie? C’entra il clima?

Veniamo ora alle domande che più interessano l’intera comunità. Nei centri regionali adibiti alla conservazione del germoplasma sono conservate sane ed “in vita” le cultivar sommesi? E’ possibile dunque, passata la tempesta “vaiolatura delle drupacee”, ripiantare le vecchie e gloriose cultivars? I nostri nipoti conosceranno il profumo ed il sapore ammaliante delle “prevete belle”?

Non è un problema di contadini. Riguarda tutti noi. E le colpe, se ci sono state, sono di tutti. Quando il complesso monumentale di S. Maria del Pozzo era alla rovina non è bastato l’intervento dei frati francescani: sono intervenuti i fondi della Comunità Europea. Le crisommele sono un bene di tutti: i contadini le hanno (le avevano?) solo in custodia. Ma sono stati abbandonati a se stessi. Anzi sono diventati i facili colpevoli principali. Ma la comunità cosa ha fatto per aiutarli? Per i commercianti arricchitisi era solo merce? E le varie amministrazioni comunali cosa hanno prodotto? Tranne un fragile tentativo pratico di qualche decennio fa di dotarsi di uno strumento promozionale  e di salvaguardia utilissimo alle piccole produzioni di nicchia (De.Co. – Denominazione di origine Comunale ), ispirato dalla  lungimiranza  del grande Luigi Veronelli, tutto si è risolto tra commissioni ed incontri improduttivi.

Certo il disastro più grande è stato, anno 2004, la bocciatura del progetto igp albicocca vesuviana. Unico caso in Italia. Tutto pronto, anche le fanfare politiche, ma Bruxelles boccia tutto per vizi di forma (forse voluti?). Ancora oggi nessuno degli attori in campo ha chiesto scusa alla comunità vesuviana. Solo la caparbietà piemontese di Slow Food ci crede ancora mettendo a punto il presidio albicocca. Non si sono ancora stancati dei vesuviani. Andrebbero osannati ma non lo farà mai nessuno.

Certo è una materia molto complessa  e come tutti i problemi complessi presuppone un grande sforzo collettivo. La comunità di Somma non può far finta di niente e sperare che risolvano gli altri. E in gioco la stessa identità di questa sempre meravigliosa comunità. Per l’altro famoso prodotto storico, la Catalanesca, si è riusciti a portare a casa qualcosa grazie soprattutto alla determinazione di cinque micro-produttori dell’intero Monte Somma e per fortuna non ci fu nessun vizio di forma e non c’erano le fanfare pronte.

Il rischio gravissimo per la terra di Somma è quello dell’esproprio totale  delle caratteristiche originarie di un luogo ricchissimo ma colpevolmente trasandato. La visione  turistica di Somma  presuppone anche prodotti di interesse gastronomico. Il panettone all’albicocca pellecchiella: ottima cosa. La pizza alla pellecchiella di Franco Pepe: un vero miracolo (a Caiazzo però). Significa che siamo in presenza di eccellenza già ben riconosciuta. La tragedia è che non siamo riusciti a produrre nessun marchio di tutela. Guaio peggiore è la scomparsa in atto dalle campagne di un patrimonio genetico a tutto vantaggio di altri sempre meglio organizzati.

Non bastano buoni  tecnici. Ci vuole un disegno sul futuro prossimo, necessita una spinta propulsiva che costringa queste popolazioni ad essere comunità ed  i suoi amministratori ad interessarsi seriamente del  patrimonio collettivo materiale ed immateriale. Difficile oggi che arrivino qui dall’Oriente cose belle e rivoluzionarie come ci è capitato nel passato. L’unica risorsa certa è il buono che già arrivò. Meritiamocelo. La Crisommola non è un semplice frutto. E’ un bene culturale per Somma e per Napoli.

(fonte foto: rete internet)