A metà del Cinquecento alcune suore di quel convento, tutte appartenenti a famiglie importanti, furono protagoniste di pratiche sessuali e di fatti di sangue. Le decisioni di Andrea Avellino, nominato ispettore. Napoli città di magia, di esoterismo e di “luoghi di forza”: per il magnetismo dei vulcani e per i nefasti influssi irradiati dai resti sotterranei dei templi antichi e, in particolare, delle “edicole” consacrate a Pan e a Mitra. Correda l’articolo la statua “napoletana” del dio Nilo.
Napoli e il Vesuviano sono stati da sempre “segnati” dai “luoghi di forza”, da quelle aree ben delimitate in cui la Natura concentra le sue più intense vibrazioni magnetiche e che gli antichi sacerdoti cercavano con una verga biforcuta per costruire in esse i templi dei loro dei. Sulle rovine di questi templi i Cristiani costruirono le loro chiese, perpetuando, secondo la tesi degli studiosi di esoterismo, gli influssi negativi “dettati” in particolare dai sacelli sacri a Pan e a Mitra. Napoli divenne “magica”, già nel mondo antico, anche per la presenza di una importante comunità di Egiziani che erano i Maestri assoluti della sapienza esoterica. E’ giusto ricordare che a Cuma la Sibilla distribuiva le sue profezie, che Napoli trasformò in mago anche Virgilio e che un “segno” di esoterismo qualcuno vede anche nel miracolo del sangue di San Gennaro. Le eruzioni del Vesuvio indussero nel Seicento alcuni studiosi a formulare l’ipotesi che gli influssi negativi venissero dal magnetismo delle lave: nell’Ottocento qualche “esperto” dichiarò, seriamente, che poco prima di un’eruzione e ancora dopo, per molto tempo, aumentavano nel Vesuviano i casi di violenza e diventava incontrollabile la mania omicida. Nel ‘600 la Chiesa vide nelle eruzioni una “piaga d’Egitto”, una punizione terribile inflitta da Dio ai Vesuviani, e in particolare agli Ottajanesi, abituati a delinquere. Nel 1668 vennero a “tenere missione” a Ottajano i gesuiti Francesco De Geronimo, che divenne Santo, e Martinez, Marquez e Mangrella, tutti esperti nel predicare i “disinganni”: per tre volte uscirono “ a notte inoltrata per le vie con l’immagine del Crocifisso e alcuni lumi, e in diversi posti cantavano, esortando i peccatori a liberarsi dall’”inganno” del piacere dei peccati e a confessarsi pubblicamente: un sacerdote “che aveva ucciso un collega ebbe il perdono dai suoi fratelli e alcuni ecclesiastici si liberarono del fango degli scandali in cui erano immersi”. E ancora nel ’700 i Carmelitani inviarono a Ottajano i loro studiosi di “dottrine malefiche” e i vescovi di Nola presero gravi provvedimenti per combattere la nefasta presenza di santoni e di “fattucchiare”. A metà del ‘500 nel monastero napoletano di Sant’ Arcangelo a Baiano alcune monache, tutte di nobile famiglia, furono protagoniste di storie di lussuria e responsabili di delitti: anche la badessa venne uccisa, perché voleva denunciare le colpevoli. Anche la nuova superiora venne pugnalata da una monaca e dal suo amante, e almeno tre monache, testimoni delle tresche, furono costrette a “suicidarsi”. Fu tale lo scandalo che l’arcivescovo di Napoli chiese ad Andrea Avellino,, che sarebbe stato proclamato santo, di condurre un’ispezione e di adottare i provvedimenti necessari. Il futuro santo notò, tra l’altro, che anche monache che si erano comportate con esemplare correttezza negli altri monasteri che le avevano ospitate, non appena avevano messo piede a Sant’ Arcangelo a Baiano, erano state contaminate da pratiche, passioni e impulsi indegni. Andrea Avellino dispose che le monache fossero trasferite nel convento di San Gregorio Armeno e che l’edificio che era stato teatro della nera storia venisse chiuso: è probabile che l’abbia indotto a prendere la decisione il sospetto che il monastero fosse stato costruito sui resti di un“mitreo”- un tempio del dio Mitra- e che il folle comportamento delle monache venisse provocato dal nefasto influsso che saliva da quelle rovine sepolte Del resto, erano indagini difficili, perché tutte le monache appartenevano a famiglie importanti e potenti: ma è probabile che almeno tre monache siano state condannate a morte dal tribunale della Curia e che siano state costrette a bere veleno. Scrisse Vittorio Gleijeses che nel tempo la storia vera venne “inquinata” con notizie fantasiose, “spesso per interessi personali”. Era fatale che in seguito si diffondesse la “favola” che i fantasmi di almeno due di queste terribili monache si aggirassero di notte per i vicoli del quartiere “Forcella”. Di queste vicende “parlò” per primo un volume pubblicato in Francia nel 1829 (qualcuno lo attribuì a Stendhal) e tradotto in Italia nel 1860. Benedetto Croce trovò notizie su questa storia “di orrenda memoria” in uno scritto del ‘600 che citò, analiticamente, in un libro pubblicato nel 1931.