Nel passato un po’ di presente. F.S. Nitti commentò gli scioperi che agitarono Napoli nel 1893

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Nel 1889 il Congresso di Parigi, dove nacque la Seconda Internazionale, proclamò il 1° maggio giorno della festa dei lavoratori, in memoria degli operai di origine tedesca massacrati dalla polizia americana a Chicago il 4 maggio del 1886, mentre scioperavano contro le “giornate lavorative” di 16 ore. Nel 1893 tutta l’Italia protestò contro il massacro degli operai italiani nelle saline francesi di Aigues Mortes. L’articolo di Francesco Saverio Nitti sullo sciopero dei cocchieri napoletani. Correda l’articolo l’immagine del dipinto di Gustave Courbet “Gli spaccapietre”.

 

 

A metà agosto del 1893 ci furono violenti scontri, presso le saline di Perrier e Peccais, nella Camargue, tra gli operai italiani e quelli francesi. Poiché i cittadini di Aigues- Mortes, armati di forconi e di fucili, si preparavano a dare l’assalto alle case in cui si erano rifugiati gli Italiani, i poliziotti francesi proposero agli italiani di ritirarsi, sotto la loro protezione, in città. Gli Italiani si lasciarono convincere, e fu un tragico errore. Durante il percorso la colonna venne attaccata da ogni lato dai francesi, e nulla riuscì a fare la scorta di polizia per sottrarre piemontesi e lombardi all’attacco della folla di Aigues -Mortes. Nove italiani vennero uccisi, e decine furono i feriti, anche gravi. Ma sui numeri ci furono opinioni contrastanti: alcuni giornali italiani parlarono di almeno venti morti, mentre i giornalisti inglesi si dichiararono certi che almeno cinquanta italiani erano stati uccisi. Nelle città italiane furono violente le manifestazioni contro i Francesi, e contro quella parte del potere politico, guidata da Giolitti, che non voleva l’alleanza dell’Italia con l’Impero Asburgico e con la Germania, e dichiarava, anche dopo i fatti di Aigues- Mortes, che i Savoia potevano percorrere una sola strada, quella dell’alleanza con la Francia. A Napoli la folla devastò le sedi di società francesi al grido di “Abbasso la Francia”, ma lo sciopero dei 3000 cocchieri – uno sciopero sollecitato anche dalla camorra – mirò a mettere in difficoltà le istituzioni locali, vigorosamente impegnate a realizzare il progetto della rete tranviaria. E proprio nella primavera di quell’agitato ’93 la società belga che controllava tutto il settore dei trasporti urbani aveva proposto un’ulteriore estensione della rete dei tram. Violenti furono gli scontri tra dimostranti e polizia, che il 24 agosto uccise un ragazzo, Nunzio De Matteis, figlio di un operaio dell’Arsenale. In un articolo pubblicato sul giornale “Il Mattino”, nell’edizione del 30 agosto 1893, Francesco Saverio Nitti, amante dell’ordine costituito, fu polemico contro alcuni giornali romani e contro il “Fanfulla” che si erano permessi di descrivere i poliziotti “come un’orda briaca e cieca di agenti provocatori” e i “monelli che scagliavano pietre” come “eroici fanciulli”. Il Nitti riportò nell’articolo l’elenco degli insulti che i manifestanti avevano rivolto al prefetto e alle altre autorità: cretini, uomini senza pudore, pecorai indegni, belve assetate di sangue, briganti senza dignità. Nitti giudicò “illegali, perché fatte contro una potenza amica” le dimostrazioni contro la Francia, ma ammise che lo sciopero dei cocchieri pur “pessimo nella forma, era nella sostanza giustissimo”, perché l’ampliamento della rete tramviaria gettava nella miseria nera i cocchieri e i proprietari delle vetture da nolo. Inoltre la società dei tramways, che garantiva “altissimi dividendi ai suoi azionisti”, assegnava stipendi di fame al “numeroso personale, che fa una fatica bestiale” e costringeva i nuovi assunti a dichiarare di non appartenere a sindacati e ad associazioni. E le autorità di Napoli sapevano tutto, ma non prendevano provvedimenti. Gli operai napoletani, “miti e docili”, anzi “troppo docili”, protestavano, ma non erano violenti: la violenza veniva esercitata da “una turba immane di persone che non fanno nulla e che vivono di mestieri innominabili”. E Nitti nemmeno a questa “turba” dà la colpa di tutto: la colpa è della classe sociale “alta” a cui egli stesso appartiene: “Vi è una parte del popolo a noi ignota: noi la deprimiamo con il dazio di consumo che l’affama, con il nostro lusso che l’offende, con la nostra distanza che le fa sentire vieppiù l’isolamento. Essa non vede la legge se non sotto la forma del questurino e non vede altra forma di assistenza sociale se non quella di una carità che la deprava. Perché mai dovrebbe amarci?”. Avevano ragione Vico, Leibniz e Nietzsche: la storia, nella sostanza, è un eterno ritorno.