Le città invisibili, a lume di lanterna con Italo Calvino

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Scrivere di Calvino a cent’anni dalla nascita è quasi un dovere per una rubrica che si denomina “Le città invisibili”. Cercherò di farlo, consapevole di poter dire solo del mistero tra questo scrittore euclideo e la sua vocazione immaginifica, studiando in esso la possibilità di una profezia per una nuova cittadinanza.

 

Nel salire con il pensiero sulle astratte pendici delle visioni calviniane dei mondi, la nostra posizione di lettori si dispone accanto a quella dello scrittore come se ci si appoggiasse l’uno all’altro. È questa la sensazione di chi si accinge a leggere un qualunque testo di Calvino, talché l’esercizio della lettura non è un puro distendersi su un corpo di segni preordinato, ma diventa un discorrere di ciò che più ci interessa: i desideri che ci attraversano, i vuoti inattesi che si aprono proprio quando pensiamo di essere sicuri sulla terraferma, i dialoghi mai cominciati, gli amori impossibili e non conclusi. Quelli irrisolti e vani e quelli in attesa di nascere. Gli amori difficili come li chiama lo scrittore.

Nei romanzi poi questo corposo movimento, impegnativo per l’autore, ma leggero e lieve per noi che leggiamo, diventa un tappeto volante. Mezzo di locomozione ordinato e geometrico, costruito da milioni di fili intrecciati e tesi, figure chiromantiche del tempo; eppure, in grado di fabulare, di fantasticare liberamente, conducendoci a rivedere tutte le nostre priorità.

Così Cosimo di Rondò, il testardo ragazzaccio de “Il barone rampante”, arrampicandosi su per gli alberi concede alla sua vita l’avventura di un salto lieve da ramo a ramo e un volo felice; Agilulfo, algido nella sua corazza, si avvolge nel vuoto di un puro spirito, incorporeo paladino, e corre, come una penna sui fogli, dietro al sogno della perfezione; Palomar, attento e mite osservatore delle geometrie del microcosmo contempla il mondo e i suoi misteri. Con Calvino il lettore passeggia su un mondo scritto, che lotta senza sosta per riordinare le sventure del mondo non scritto, quello diremmo “reale”, ma insensato e zoppicante, verso il quale drammaticamente ci volgiamo e che ci chiama senza sosta a tornare, pur riconoscendo lo scarso aiuto che potremmo dargli. Tuttavia, non possiamo esimerci di ritornare, abbiamo ciascuno di noi, lettori ammaliati e un po’ assopiti, il compito di aprire uno spiraglio alle parole, affinché possano custodire un lucignolo fumigante o far luce, con una piccola lanterna, sulle sapienze ancora da raccontare. Sembra niente, ma si rivela una sfida ineludibile, proprio là dove il buio diventa tenebra. Perciò, con tanta buona volontà e finalmente consapevoli del nostro mondo, ci accostiamo ad uno degli usci delle stanze scrittorie di Italo e sentiamo il fitto dialogo di Kublai Khan che, a Marco Polo, come ad ogni lettore, affida il compito di ricercare, nelle città invisibili, la promessa, non ancora perduta, di una nuova intimità fra gli esseri umani.