Quando l’economia reale è meno “importante” di quella finanziaria.
Negli ultimi mesi, l’attenzione dei mercati finanziari è parecchio rivolta alle fluttuazioni del prezzo del petrolio.
Nel 2014 si erano toccati (quelli che si pensavano essere) i minimi storici; poco più di 60$ al barile, rispetto a un prezzo d’inizio anno di circa 100$.
All’inizio dell’anno corrente si sono toccati i 48$.
Negli ultimi giorni, per la prima volta dopo l’11 dicembre scorso, il prezzo ha sfondato la soglia dei 60$ e le prospettive sono tornate ad essere positive.
La domanda è: perché?
L’effetto causale va cercato lontano dai fondamenti del petrolio stesso che appaiono, infatti, deboli.
L’ipotesi che sta prendendo corpo è che i fattori causali siano puramente finanziari.
Il petrolio, negli ultimi dieci anni, è diventato a tutti gli effetti un asset finanziario, target di moltissimi fondi speculativi, grandi e piccoli.
Gli hedge funds sono fondi comuni di investimento privati che raccolgono capitali di investitori professionisti, dove tale attributo non è legato alle capacità o alle abilità degli stessi, bensì al loro patrimonio (ingente). Il perno dei fondi speculativi è la possibilità di investire su asset illiquidi, vale a dire fare investimenti a lungo termine, individualmente altamente rischiosi, ma gestiti in modo tale da minimizzare la correlazione con il mercato.
I piccoli fondi focalizzano i loro investimenti sui fondamentali; sono i macro fondi a muovere capitali intorno al petrolio e intorno a suoi derivati. Si noti che l’1% del capitale di fondi multimiliardari è capace di sovrastare la direzione presa dai fondi più piccoli.
La conseguenza necessaria è che i mercati sono guidati dalle strategie di questi fondi: le quotazioni del petrolio, e le fluttuazioni, non sono interpretabili se si guarda ai fondamentali. In altre parole i prezzi non si muovono seguendo la legge della domanda e dell’offerta, bensì per ragioni puramente speculative.
Attualmente sul mercato fisico si stima un surplus di 2 milioni di barili: un eccesso di offerta sulla domanda dovrebbe risolversi in una riduzione del prezzo del bene. Ciò che osserviamo è esattamente l’opposto.
I benchmark per il prezzo del petrolio sono due: il Brent e il Wti; il primo è quello globalmente riconosciuto ed utilizzato. Entrambi sono in aumento.
Questa settimana si è chiusa con il Brent a 66,81 $ al barile e il Wti a 59,69$.
Il periodo più vigoroso del rally del petrolio coincide esattamente con la chiusura accelerata di posizioni short da parte dei fondi: vale a dire con l’acquisto di derivati (sul petrolio), in particolare futures.
Quando un bene viene acquistato, il mercato percepisce un segnale positivo circa il valore di quel bene, e il prezzo sale.
È questa una probabile, e plausibile, spiegazione dell’aumento del prezzo del petrolio.
La prospettiva è al rialzo, le case di investimento stimano un prezzo di 70-80$ al barile entro fine anno.
L’analisi appena fatta non può non tenere conto del recente apprezzamento del dollaro. Se volessimo confrontare i listini attuali con quelli del recente passato, dovremmo tenere in considerazione che il dollaro in questo momento è molto più forte.
Ciò significa, se possibile, che il rialzo dei prezzi del petrolio è in realtà più corposo di quello che si legge.