Manca una storia dell’alimentazione nel Vesuviano e nel Nolano. I nessi tra l’arte della cucina e le arti figurative. Le “liste” di due taverne ottajanesi nel 1678. “L’olio di Avella”, il “pane largo”, “il vino della Montagna”.
Manca una storia dell’alimentazione nella Campania Felice, e cioè nel Vesuviano e nel Nolano, ed è un vuoto grave. Conosciamo tutte le tresche amorose degli Angiò, degli Orsini e dei Medici, e sappiamo quante volte, nel 1849, prese la parola nell’aula del consiglio comunale – allora si chiamava decurionato – quel tale decurione ottajanese, ma solo qualcuno dei molti e importanti storici del territorio si è ricordato di dirci cosa mangiavano i nostri nonni, e i loro nonni, e bisnonni.
Non è solo curiosità culinaria: colazione, pranzo e cena furono e sono strumento e specchio del sistema economico e della cultura sociale. Roman Jakobson, che non faceva il cuoco, ma il linguista, il semiologo e il critico letterario, indagando sugli stili della civiltà tardo- medioevale, trovò solide corrispondenze tra lo “stile misto” del teatro gotico e l’inclinazione della gastronomia a farcire le pietanze con ingredienti contrastanti. Piero Camporesi ha sostenuto che l’arte della cucina è una forma di arte figurativa, e il quadro che accompagna questo articolo, e che Giuseppe Recco dipinse nel 1665, è la prova di quello che può il pennello di un pittore quando sa creare la luce.
Ha ragione Remo Bodei, le cose parlano, e il quadro di Recco è una magnifica prova di questa loro capacità. Se dovessi scrivere la storia dell’alimentazione nel Vesuviano e nel Nolano, ne racconterei le vicende ora amare, ora succulente, con l’aiuto delle immagini di quadri e di disegni. Mario Stefanile definì monumento barocco la lasagna, e forse avrebbe apprezzato l’audacia di chi osa vedere una qualche corrispondenza tra il “pignato maritato” e le fastose invenzioni di Luca Giordano e di Francesco Solimena, e tra il ragù e la calda pittura romantica di Domenico Morelli e dei suoi allievi.
Giuseppe I Medici che governò con mano ferma il feudo di Ottajano per mezzo secolo, fino al 1717, anno in cui morì, favorì – checchè ne dicano gli storici – lo sviluppo dell’ economia del territorio: lo dimostrano, chiaramente, i “rilievi” del catasto del 1676. Vi si legge, per esempio, che dopo il 1660 aumentò il numero delle taverne: e questo era segno inconfutabile del fatto che i ducati in metallo sonante c’erano, e si muovevano, e suonavano. Nel quartiere del Vaglio, dominato dal Castello, c’erano due taverne. Una, nei pressi della Chiesa di San Michele, era tenuta da Vincenzo Caldarelli, marito di Giovannella Giugliano, e padre di un sacerdote, Antonio.
Il “tavernaro” possedeva una trentina di moggia di terra tra il “Piano”, i ” Mazzei” e il Mauro, ma si dichiarava indebitato: con Pietro Gentile di Sant’ Anastasia, per 300 ducati, e con l’ottajanese Vittoria d’ Aiardo per circa 50 ducati. L’altra taverna, nei pressi dell’Oratorio, era tenuta da Francesco Arpaia, di 30 anni, marito di Carmina Caldarelli , di anni 25, forse parente dell’oste concorrente: la coppia aveva 4 figli, nati a un anno di distanza l’uno dall’altro: della cospicua dote di Carmina, 150 ducati, il marito dichiarava di aver incassato solo la metà.
Nell’aprile del 1678 i due “tavernari” vennero alle mani davanti alla taverna del Caldarelli: furono coinvolti nella mischia, forse come pacieri, i vicini di casa Gennaro Saporito, “faticatore”, e Domenico De Rosa, “carbonaro”, i cui discendenti, da carbonai diventati sarti, e da sarti “mastri fabbricatori” e architetti, avrebbero svolto nel sec. XIX un ruolo importante nella storia di Ottajano. I due contendenti si accusarono a vicenda di furto e di contrabbando: la rissa fu sedata, prima che scorresse il sangue, dagli “uomini d’arme” del Principe. Pochi giorni dopo agli amministratori della città venne consegnata la lista delle ” robe da mangiare” che erano state trovate nelle due taverne: non si sa per quale motivo venne ordinata l’ispezione.
Nella lista dominavano le carni: vitelluccia, annecchia, vari tipi di trippa, salsicce, e il “piccatiglio”, (o, forse, piccantiglio) che dovrebbe essere una specie di spezzatino conciato con le spezie. In entrambe le taverne c’erano notevoli quantità di tarantiello, che era ed è pancetta di tonno lavorata con il sale. Il vino, conservato nelle botti, venne classificato come “greco” e “vino della Montagna”. C’era anche “l’olio di Avella”: “olio di Avella ” veniva prodotto negli oliveti di Terzigno ancora alla fine dell’Ottocento.
Nel 1683 il “conduttore” della taverna di Piazzolla donò ai Gesuiti di Santa Teresa, per la loro mensa, “pane largo e pastiere”: il pane largo dovrebbe essere “la ruota di pane”. Il temine “pastiera” indica vari tipi di dolce. Negli scrittori dell’epoca “pastiera ‘ngrattinata” è un pasticcio ripieno. Nelle “liste” da me consultate non ho trovato i “maccheroni”. Ma la questione è complicata, e ne rinviamo la trattazione ad altra data.
(>Foto: Giuseppe Recco, Natura morta, 1665 circa)