Le ricette di Biagio. Il dentice alle erbe, o alla “Totore”

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Le virtù del dentice secondo un artista della “ghiottoneria”. La funzione delle erbe e la “posatezza” del pomodoro. Il guappo Totore domato da Nunziata. La civiltà del vicolo e il quadro di V. Migliaro. Il vino “Vesuvio vivace”.

Ingredienti: fette di dentice di gr.200 ciascuna; gr.500 di pomodori; salvia, rosmarino, prezzemolo, origano, erbette di finocchio, aglio, pepe, sale, farina, olio q.b.
Lasciate che le fette di dentice, passate nell’acqua, si asciughino e si prosciughino in un piatto, sotto un moderato spruzzo di olio e sotto un cospicuo trito di tutte le erbe aromatiche, in cui sia dominante l’ intenso profumo del rosmarino, dell’origano e dei grani di pepe. Dopo un paio d’ore, rosolate le fette di pesce in una teglia, controllando e variando opportunamente l’intensità del fuoco. Quando la rosolatura giunge a livello di perfezione, allineate le fette del dentice nel piatto di portata. Intanto avrete cotto i pomodori, spellati e liberati dai semi, in un tegame a parte, con olio, aglio e sale. Questa salsa va versata sulle fette di pesce: infine si copre il tutto con origano, e con frammenti, che non siano piccoli, di salvia e di prezzemolo. Un tocco magistrale lo danno, con il loro aroma particolare, le erbette che ornano il bulbo del finocchio “Gigante di Napoli”.

Biagio Ferrara

Il poeta greco Filosseno di Leucade scrisse un poemetto, “Il banchetto”, in cui illustrava le virtù afrodisiache del cibo, dal cipollaccio cosparso di salsa fino al tonno. Da questo punto di vista, la triglia, “figlia della vergine Artemide”, non faceva una bella figura, mentre efficaci Filosseno considerava la cernia, la verdesca e il dentice: ” ma non tagliarli: se li tagli, il vento della vendetta degli dei spirerà su di te; servili tutti interi e arrostiti, è molto meglio.”. In un altro passo del poemetto egli descrive l’arrivo in tavola di un dentice “grande quanto la tavola”, e ” spasimante del fuoco”: che è una intensa immagine, adatta a certi cibi che non sopportano il freddo. Filosseno è l’antenato di tutti i ghiottoni: Crisippo, che invece era un devoto del digiuno, racconta, forse inventando, che quell’ implacabile crapulone, quando era invitato a un banchetto, cercava di corrompere i cuochi, “perchè servissero in tavola cibi caldissimi che lui solo poteva divorare, mentre gli altri commensali non riuscivano a stargli dietro”. Dunque, gli dei si irritano se il dentice viene tagliato a fette: ma nel piatto di Biagio ci sono la salvia e il rosmarino, che forniscono non solo profumi, ma anche protezione contro l’ira delle potenze avverse e contro l’invidia della sorte.

In questa ricetta il dentice, pesce predatore, viene domato e ammorbidito dal concorso delle erbe mediterranee, e poi riscaldato e “posato” dal pomodoro: “posato” nel senso che il sapore nervoso e rigido delle sue carni si apre, si allarga, si fa complesso. Il duello tra gli abissi del mare e la campagna verde di erbe si conclude con la vittoria della terra. Il dentice predatore si agita, resiste, ogni tanto da un frammento di fetta si sprigiona in un breve lampo una nota di salsa arguzia, ma alla fine il pesce si calma. Insomma, fa la fine di Totore, il giovane guappo dell’atto unico di Viviani ” Il vicolo”. Totore è innamorato di Nunziata, ma sente che la passione, troppo intensa, e gli occhi belli della donna lo hanno “”ncarugnuto”, gli hanno spento i lumi della ragione, la forza del cuore e il senso dell’identità personale: ” m’hè fatto addeventà ‘nu vile ‘e core/ n’ommo ‘e lignammo, nun so’ cchiù Tatore”. Lui riesce ancora a minacciare la donna, ma solo con l’aiuto del vino: ” So’ bevetore ‘e vino e si m’ arracchio ( se mi ubriaco) / te scarreco ‘a ricanna (la pistola a due canne), int’ ‘o denucchio (nel ginocchio) /, scorza ‘e fenucchio.”

Il guappo infelice intona anche un canto “‘ ‘a fronna ‘e carota”, che è una rarità: lui, che ha sempre tenuto “appese a ‘stu cazone” donne a dozzine, ora si sente consumato dalla passione per una che non conosce pietà, “carità”: ” chi sa ‘sta pelle addo’ ‘a vaco a pusà”. Il tema non è nuovo: “‘O vicolo” è del 1917: il Totore di Viviani è stretto parente del protagonista di “Guapparia”, la canzone che Bovio e Falvo avevano pubblicato tre anni prima. Quando Totore entra in scena, Nunziata commenta il suo ingresso con una battuta sprezzante: “Ah!Ah! è venuta ‘a carestia d’ ‘e guappe! ‘a peste ‘e ll’uommene malandrine.”. E forse Viviani immaginò che, nel dire parole tanto cattive sul giovane che aveva perso la testa per lei, Nunziata stesse lievemente ” di squincio”, inclinata su un lato, e con la mano sul fianco, come la donna che sta al centro del quadro di Vincenzo Migliaro, “Piazza Francese”: la postura perfetta della donna “comandante”, messa in risalto dal rosso squillante dell’abito che ella indossa, e dal grigiore assoluto – di colori e di espressione – degli uomini che giocano a carte. I quadri di Migliaro e l’atto unico di Viviani sono una sintesi spettacolosa della autentica civiltà del vicolo: linguaggio, gesti, figure, alimenti, odori.

A questo dentice nobilitato dalle erbe e dal pomodoro si abbina, per un’ intima corrispondenza, il ” Vesuvio vivace” di Fiore Romano, vino di spiccata identità, ma versatile, adatto a esaltare i toni delle erbe, a mitigare la punta prepotente del pomodoro, a prestare alle carni le note luminose della sua morbida freschezza.

L’OFFICINA DEI SENSI