La polemica tra il direttore del >Corriere del Mezzogiorno ed Eugenio Bennato, che ha cantato le gesta del brigante Ninco Nanco. Di Carmine Cimmino
A Eugenio Bennato che ha abbandonato Gramsci per “diventare neoborbonico“ e per cantare le gesta del brigante Ninco Nanco, Marco Demarco (Corriere del Mezzogiorno,15 dicembre) consiglia “di lasciar perdere per un po’ pizziche e tarante e di andare a cinema a vedere Midnight in Paris, il film di Woody Allen, forse il migliore antidoto attualmente in circolazione contro quella strana malattia che spesso prende artisti e intellettuali, la nostalgia“.
Ninco Nanco, ricorda Marco Demarco, fu un feroce assassino, che non pose “al centro della sua azione la questione sociale, il riscatto dei poveri e l’assegnazione delle terre ai contadini.”. Insomma, conclude il direttore del Corriere del Mezzogiorno, Ninco Nanco non fu un “Che“ Guevara: fu solo un brigante di Avigliano, che mise paura alle truppe “piemontesi“ con la sua abilità di guerrigliero, e che i militi della Guardia Nazionale di Avigliano uccisero nel 1864. Nessuno dei briganti postunitari fu un “Che“ Guevara: per ovvie ragioni storiche. È come se uno rimproverasse a Spartaco di non essere stato Martin Luther King. Ma se Ninco Nanco non fu un “Che“ Guevara, è probabile che “Che“ Guevara sia stato un po’ anche un Ninco Nanco.
Dichiaro, in premessa, che non ho alcuna nostalgia dei Borbone. Credo, anzi, che il problema primo di Napoli e del Sud sia proprio il “borbonismo“: un morbo complicato, un composto di idee e di comportamenti tenuti insieme dall’insensibilità ai principi dello spirito civico, e da un egoismo capace di diventare, quando gli interessi privati lo richiedono, spudoratamente cinico: ‘a cazzimma . Pilone, Barone, i capi delle comitive dei Monti Lattari, Cipriano La Gala, Carmine Crocco e Gaetano Manzo dicono ai loro uomini che si combatte per il ritorno dei Borbone, che la loro guerra è sostenuta dai livelli alti della gerarchia del clero, dalla crema della nobiltà , dall’ Austria: ma basta leggere le dichiarazioni fatte dai briganti e dai manutengoli ai commissari di polizia, agli ufficiali dell’esercito e ai giudici per capire che già nei primi mesi del ’62 pochi credevano nel ritorno di Francesco II e che dieci mesi dopo non ci credeva più nessuno.
Il legittimismo fu, infine, solo un tema della propaganda politica. Ma proprio quelle deposizioni, trascritte in centinaia di verbali, dimostrano, al di là di ogni dubbio, che il brigantaggio fu una rivolta sociale, tanto ampia e tanto radicata in vasti spazi della società meridionale che i comandi militari e i politici non solo ne furono preoccupati, ma cercarono anche di nascondere la verità sulle dimensioni del fenomeno. Chi crede che le comunità rurali della Campania interna, del Tavoliere e della Lucania fornissero ai briganti una complice copertura solo per le ragioni della paura, non sa che la violenza era, in quei territori, l’ “espressione“ più immediata e più frequente delle relazioni sociali.
Per rendersene conto, basta leggere, nei registri delle Preture e delle Corti d’ Assise, gli interminabili elenchi di omicidi, ferimenti, furti, rapine, grassazioni e stupri, che dal 1862 al 1875 segnarono la vita quotidiana tra il Garigliano, Lagonegro, il Vulture e la Capitanata. Pastori e contadini non avevano paura: furono conniventi perché condivisero, istintivamente, le ragioni dei briganti, e ricorsero al tema della paura solo per giustificarsi davanti agli uomini della legge.
I briganti lucani, avellinesi e foggiani, non conoscendo le vie del ragionamento per astrazione, identificavano i problemi con gli uomini: i loro bersagli erano i proprietari terrieri e i notai, perché era noto a tutti che tutti gli “imbrogli“ nascono dalle carte scritte, e dalle penne dei “galantuomini“.
I briganti presero le armi contro “i piemontesi“, perché questi erano “stranieri“, non capivano, non si facevano capire, comunicavano le loro decisioni con complicati manifesti e, soprattutto, agli “imbrogli“ vecchi avevano aggiunto un “imbroglio“ nuovo e insopportabile: l’obbligo di leva e il trasferimento al Nord. Molti dei briganti erano “sbandati“ e renitenti alla leva: ma Lamarmora e Cialdini, respingendo le esortazioni a una maggiore flessibilità che venivano dalla stampa e dai politici più avveduti, furono ostinati –un’ostinazione sospetta– nel pretendere che la legge dell’obbligo di leva e le norme contro i renitenti venissero applicate nel modo più rigoroso.
La scena più frequentemente descritta nelle deposizioni dei briganti è quella dei “signori“, proprietari, notai, avvocati, sensali, che a testa bassa e “con il cappello in mano“ aspettano di essere ricevuti in udienza dal capobanda o ascoltano, in atterrito silenzio, i suoi proclami. Ma a metà del ’63 non c’è capobanda che non abbia capito d’essere stato venduto alle forze dell’ordine dai “galantuomini“ borbonici in cambio di quella pacificazione tra le vecchie caste e le nuove consorterie di “liberali“, che avrebbe fatto dell’ Italia unita un Paese nato già vecchio e già malato di “borbonismo“. La prova oggettiva sta proprio nelle carte: dal 1830, anno in cui salì al trono Ferdinando II, al 1896, anno della disfatta di Adua e del tramonto definitivo di Crispi, non c’è ricambio significativo di cognomi nei Consigli Comunali del Mezzogiorno.
I verbali degli interrogatori, pur annacquati da magistrati, cancellieri e scrivani, che spesso interrogavano i briganti con l’aiuto di “interpreti“ e di “traduttori“, dicono chiaramente che il brigantaggio ritornò, nella sua ultima stagione, alla sua forma prima e universale : fu una rivolta disperata dell’odio e del risentimento degli “umili“ contro i potenti che non perdono mai, e che mettono le mani su tutto, anche sulla verità . Conclusa la pace tra vecchi e nuovi gruppi di potere, a nessuno interessava sapere cosa fosse veramente successo tra il ’60 e il ’63: anche quando i briganti raccontavano storie e facevano nomi, gli inquirenti fingevano di non sentire: non era dignitoso andar dietro alle calunniose chiacchiere di delinquenti feroci, di “iene“.
Secondo le fonti più attendibili, nel marzo del ‘ 64 un pagliaio in cui Ninco Nanco e due dei suoi si erano nascosti venne circondato dalle guardie nazionali di Avigliano: che prima appiccarono il fuoco alla sterpaglia intorno al pagliaio e poi intimarono ai tre di arrendersi. Ninco Nanco uscì dopo i due compagni: ma fece solo pochi passi. Una guardia nazionale gli sparò addosso, forse per vendetta privata, forse per ordine di un importante proprietario del luogo, che voleva “seppellire“ il suo recente passato di amico e protettore dei briganti. Il corpo di Ninco Nanco venne appeso in una piazza di Avigliano.
In quegli anni i bollettini dell’esercito e i giornali ispirati dai comandi militari portavano il conto delle teste dei briganti mozzate e confitte sui pali lungo le strade del Sud. Alla ferocia dei rivoltosi lo Stato rispose con una ferocia non inferiore, e certamente, in quanto ferocia delle istituzioni, di gran lunga più spregevole.
(Nella foto il corpo di Ninco Nanco, Fonte Internet)