Gli alimenti parlano e hanno una loro moralità. Ci illudiamo di asservirli alla nostra fame, ma gli schiavi siamo noi. Il baccalà si piega paziente alle fantasie dei cuochi, sembra subire, ma non si dissolve. Si trasfigura. Di Carmine Cimmino
L’anno venturo, deis iuvantibus, dovrei pubblicare le mie ricerche sulla storia dell’alimentazione nella Campania Felice dal sec.XVIII ad oggi. Un capitolo l’ho dedicato al linguaggio e all’etica del cibo: tentando di sviluppare un suggerimento di Folco Portinari e di Alain Corbin. Gli alimenti parlano e svelano molte verità: e hanno una loro moralità. Spesso trasparente, talvolta dubbia, o equivoca. Noi ci illudiamo di manipolarli e di asservirli alla nostra fame e al nostro piacere: al piacere della gola, al piacere dell’esibizionismo, al piacere della sorpresa e dell’oltranza. In realtà, gli schiavi siamo noi.
Ho tracciato il percorso della storia sociale e morale del baccalà: il paragrafo della storia morale è un elogio della sua pazienza. La fama del baccalà nasce dall’umiltà. Nei conventi poveri – c’erano anche conventi poveri-, che non potevano permettersi né il pesce fresco, né le anguille del Sarno o di Benevento, il baccalà era il piatto “magro“ dei giorni di penitenza. Dalle cucine dei conventi si trasferì, con il fratello, lo stocco, nelle cantine e nelle osterie disseminate lungo le strade della fede: stocco e baccalà hanno un ruolo centrale nella storia sociale dei grandi culti mariani della Campania.
Occuparono poi, il baccalà e lo stocco, le taverne lungo la strada percorsa dai carrettieri che trasportavano grano dal Tavoliere al mercato di Nola, e da qui ai mulini di Palma e di Torre Annunziata. Quei “salumi“ costavano poco, relativamente. Nel 1752 a Ottajano un rotolo, quasi 900 grammi, di baccalà costava un carlino, e un contadino guadagnava mediamente quasi tre carlini al giorno; nel 1854 la Municipalità di Nola nell’assisa dei salami, a cui facevano riferimento non solo il distretto nolano, ma anche alcuni comuni vesuviani, stabiliva questi prezzi, per rotolo: grana 11 per il “mossillo nuovo di baccalare“, grana 10, cioè un carlino, per “le scelle nuove di baccalare“, grana 8 per lo “stocco verace“. Il salario del contadino era salito a quattro carlini, e quello dei vignaioli a cinque, cioè a metà ducato: ma il prezzo di stocco e baccalà era rimasto, in un secolo, invariato.
Tuttavia, per capire meglio quale fosse la condizione di povertà dei contadini vesuviani e nolani alla metà dell’ Ottocento, giova ricordare che 900 grammi di “cacio muscio pecorino fresco“ costavano due carlini, la metà della “giornata“ di un contadino, e che una pari quantità di alici salate costava 17 grana, più di un carlino e mezzo. Chi acquistava ricotta e cacio direttamente dai produttori, e non nei mercati, risparmiava non più di due grana al rotolo.
Stocco e baccalà restarono piatti relativamente “poveri“ fino agli ’80 del secolo scorso. Quando i figli dei contadini inurbati durante il miracolo economico cominciarono a credere nel mito del recupero delle “tradizioni“ e degli “antichi piatti“ – il mito della cucina della nonna – lo stocco, più delicato nel sapore e più digeribile, divenne un alimento costoso, mentre si riduceva a poco a poco il consumo del baccalà.
Al baccalà non giovò nemmeno l’antico rapporto con la devozione del Natale, che per esempio spingeva mia madre a mettere in tavola, la sera del 24 dicembre, un abbondante fritto di baccalà, anche dopo la morte di mio padre, il solo in famiglia che non avesse mai disdegnato di farne un assaggio.
Un “baccalà“ è lo stupido integrale, quello che manifesta la sua stupidità anche nella forma del corpo: che è allampanato, e più che alto, è allungato, in misura conforme all’antica e ingenerosa idea che i lunghi siano corti di cervello, e i corti siano pieni di malizia: curto e male ‘ncavato. Consapevole della sua fibra tigliosa – “non l’ho potuto mai digerire“ dichiarava impietosamente l’Artusi – il baccalà ha cercato di prestarsi umilmente a ogni tipo di trattamento, di soggiacere a ogni esperimento che mettesse un po’ di potenza nel suo sapore, e un po’ di morbidezza nella sua sostanza.
Qualche anno fa mi capitò di mangiare a casa di amici toscani il baccalà all’agliata. ”Devi mangiarlo per forza – mi ordinò cortesemente la padrona di casa -, è diventato un piatto politico da quando Berlusconi ha dichiarato guerra all’aglio”. Sistemato Berlusconi, i miei amici attaccarono i liguri: “Si sono appropriati l’agliata. Ma l’agliata è una salsa italiana, in uso già nel Medioevo dalla Lombardia alla Sicilia, nel segno delle virtù dell’aglio, che mette in fuga i vermi, il diavolo e i vampiri”. E intanto pestavano nel mortaio sale, aglio e mollica di pane intrisa di aceto non balsamico, e poi schiacciavano meticolosamente il miscuglio usando, di punta e di taglio, una forchetta di legno dai lunghi denti.
Condita con l’olio della Lucchesia, la salsa venne diffusa, in un velo uniforme, sui pezzi di baccalà, tolti dalla padella prima che la doratura diventasse troppo intensa. Prima di entrare in padella, i pezzi erano rimasti a lungo a bagnarsi alcuni nel latte, altri nel vino. Il vino era un morellino, che servì anche a liberare la bocca e la gola dai vapori insidiosi dell’aglio. Mi parve un piatto finissimo, che mi suggerì l’idea della pazienza del baccalà. La neutra legnosità del “salume“ esaltò i valori dell’aceto e dell’aglio, temperandoli con la robusta eleganza del pane, dell’olio e del vino (nessuno riuscì a farmi assaggiare il baccalà ammollato nel latte ). Mi parve che in quel piatto il baccalà si comportasse così come il grigio celeste, il grigio Payne, si comporta in certi quadri: esalta, per contrasto, la luminosità dei colori, si mette al loro servizio.
Ma poi osservi attentamente la tela e ti accorgi che il tono e il ritmo della scala cromatica sono dettati proprio dal grigio della mesticatura: che si fa assorbire dai colori per poi assorbirli e restare padrone della scena. La sostanza tigliosa del baccalà si piega paziente a tutti gli “attributi“ che le impone la fantasia dei cuochi: aglio, cipolla, pomodoro, peperoncino, l’oliva nera, i funghi, i capperi, gli spinaci, il rosmarino, le cozze, le vongole. La sostanza tigliosa si imbeve di succhi e di umori, sembra che si dissolva, e invece si trasfigura. Alla fine, il baccalà ricompare, è diventato “un signor“ baccalà.
Non mi piace il sorriso, da Professore e da Banchiere, di qualche nuovo ministro. Spero che nessuno di loro condivida, con alcuni ministri che furono, l’idea che gli Italiani siano un popolo di minchioni smemorati. Di baccalà: ne fai quello che vuoi. Non conviene fidarsi delle sostanze che sembrano, al primo contatto, neutre e tigliose.
(Quadro: Giovanni Ponticelli, Il supplizio di Tantalo, 1871- Collezione d’arte della Provincia di Napoli)