L”Officina dei sensi oggi, è alle prese col “mussillo” di stocco (“mussillo” perchè?) e col baccalà, il quale in salsa bianca piacerà e sarà lodato.
Di Carmine CimminoA mia madre, figlia e sorella di cavallai, bastava un colpo d”occhio per valutare il livello di “spugnatura” del “mussillo” di stocco, e per stabilire se conveniva cucinarlo “bianco” o “rosso”. A casa nostra il “mussillo” era di stocco: il baccalà entrava nel menù raramente: e a Natale solo “per devozione”. Mario Stefanile faceva nascere la parola “mussillo” da “musso”, che in napoletano è la bocca quando fa l”enfatica e risucchia nelle sue smorfie tutta l”espressività della faccia: “fare “o musso stuorto, tenere “o musso, metterse c””o musso”: che dovrebbero corrispondere all”italiano “tenere il broncio”, ma con in più un pizzico di risentimento urtante, di fastidiosa “sprucitezza”: soprattutto quando “” o musso” è lungo “”no parmo”, un palmo.
Con Stefanile si schierò Francesco D”Ascoli: ma nel suo vocabolario non viene spiegato cosa c”entri un piccolo muso, “”o mussillo”, con la schiena del merluzzo, lavorata a stocco e a baccalà. Andreoli nota che i napoletani chiamano “mussillo” anche il musino, il muggine (in latino, muxinus), alla cui famiglia appartiene il cefalo: e noi possiamo aggiungere che il nome “musino” Francesco Redi lo dava anche all”anguilla. Ma le cose non quadrano: non si capisce cosa c” entri il “musso”.
Renato De Falco considera “mussillo” una variante di “murzillo”, “”no muorzo piccerillo”, un boccone. Petronio Petrone in un articolo pubblicato tempo fa sul Denaro ha bocciato questa interpretazione “proprio per i motivi addotti dallo stesso De Falco”. Argomenta Petrone: mentre “”o mussillo” è la parte migliore dello stocco e del baccalà, “”e morzelle” sono pezzi di “scella” e scarto della sfilettatura: insomma roba di poco conto. Sfugge al Petrone che “”a morzella”, di cui parla lui, e “”o murzillo”, di cui parla De Falco, sono cose diversissime, nella lingua napoletana.
“”O murzillo”, scrive D”Ascoli, significa: pezzettino, bocconcino; bocconcino gustoso e gradevole; uomo di modeste dimensioni fisiche; bella ragazza che muove i sensi di chi la osserva. Anche oggi, nei luoghi in cui si parla ancora la lingua napoletana, di uno che abbia buon gusto – in fatto di cibo e in fatto di donne -, si dice: “gli piace “o meglio murzillo”. Dunque, anche una bella donna è “nu murzillo: il maschile non rimanda a un genere, ma all”assoluto di un”idea, come talvolta il neutro in latino e in greco.
Il Petrone fa nascere mussillo dalla mousse, dall” “impasto morbido, soffice, corposo che hanno anche il patè, il purè, il soufflè, la mousse di tonno”: “anche la mousse di frutta, banana, pera, pesca, somiglia, per consistenza, al filetto morbido e pastoso del baccalà”. È un” interpretazione ardita. La mousse e il mussillo provengono da filosofie e da sociologie del cibo che, dopo essersi a lungo ignorate, si stanno incontrando solo ora, in qualche tempio della cucina informale, in cui tutto sa di tutto, e dunque di niente. Inoltre, la virtù naturale del mussillo di stocco non è il “morbido”, ma il “calloso”, e più esattamente il “galluso”, e cioè una consistenza che non è mai durezza.
Il pezzo di “mussillo galluso” si sfoglia a punta di forchetta, e lo “sfoglio” è un godimento masticarlo: si torce in bocca, si fende, non si frantuma. Avrebbe detto Toulouse Lautrec, che era un grande cuoco – molti pittori lo sono stati, ci deve essere una ragione – avrebbe detto che lo stocco “galluso” cede dopo aver combattuto: il piacere nasce dalla combinazione dei due momenti. È perciò necessario che gli odori e le salse non stordiscano il valore della sostanza riottosa e arrendevole.
E dunque mussillo è una saggia variante di murzillo: vi si conserva per vie misteriose la memoria del latino medievale “musilum”, che non è solo la bocca, ma anche un rostro, un “corpo” allungato e sottile: così lo stocco si chiama stocco, perchè ha la forma di un bastone, e la perfetta funzionalità di un pugnale.
*** Baccalà: “Persona magra e sparuta, allampanata; anche, stupida, malaccorta”. La sentenza emessa da Giacomo Devoto e da Gian Carlo Oli è impietosa: quale delitto ha compiuto il baccalà per essere condannato a dare il nome a un tipo di persona tanto magra da trovarsi sul punto di sparire, di dissolversi, e tanto affamata da essere ridotta al lumicino, alla làmpana, cioè alla lampada? Il problema del baccalà è la sua forma, diciamo così, sformata: e con la forma, l”essere, in certe parti, solo pelle e lisca.
Nessun alimento mai ha suggerito con maggiore immediatezza la penitenza quaresimale e i sacrifici della povertà. Il baccalà non ha un sapore caratteristico, e se anche l”avesse, il sale lo spegnerebbe: “la sua fibra tigliosa – scrive Pellegrino Artusi, il divulgatore della cucina dell”Italia unita – non è confacente agli stomachi deboli, perciò io non l”ho mai potuto digerire. Questo salume supplisce, nei giorni di magro, con molto vantaggio, il pesce, che è insufficiente al consumo, caro di prezzo e spesso non fresco”.
Baccalà si chiama il tragico protagonista di una poesia di Eduardo: “Era luongo duje metre e vinticinche,// ” mmane appese mpont”a ddoje cordelle,// “a capa “e mbomma, “e piede a barchetelle:// “o mettetteno nomme Baccalà”.
Dalle ricette di Artusi: baccalà in salsa bianca. Lessate il baccalà e nettatelo dalla pelle, dalle lische e dalla spina. Lessate anche una patata di circa 150 grammi e tagliatela a tocchetti. Fate una “balsamella” con il latte e la farina e quando è cotta uniteci un poco di prezzemolo tritato, datele l”odore della noce moscata, versateci dentro la patata e salatela. Poi aggiungete il baccalà a pezzi, mescolate e dopo un poco di riposo servitelo: piacerà e sarà lodato.
(Fonte foto: Rete Internet)