GLI INOPPORTUNI SEMPLICISMI CHE PRESIDIANO LA SCUOLA

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    Sono sempre più lontani i tempi in cui gli insegnanti per i propri figli si sceglievano in base a preparazione e severità. Sono cambiate le famiglie e:le motivazioni. Di Ciro Raia

    Qualche sera fa, un mio amico, un po’ avanti negli anni, di grande levatura culturale (sodale in gioventù di personalità come Rocco Scotellaro o Carlo Levi, tanto per dire), mi raccontava della punizione inflittagli, per sua colpa, nei primi giorni in cui aveva vestito la divisa grigioverde. Alla domanda, infatti, rivoltagli da un superiore, perché esplicitasse la funzione della sentinella, aveva provocatoriamente risposto che “serviva a non fare entrare la logica in caserma!”.

    Io non so se a presidiare le nostre scuole ci siano o meno delle sentinelle; so invece, – e questo penso di saperlo per certo- che i percorsi d’apprendimento dei nostri alunni non vivano di necessarie semplificazioni ma siano connotati solo da un inopportuno semplicismo. Quasi di banalizzazione. Per cui lo sviluppo della logica è relegato in naftalina a totale vantaggio del trionfo del nozionismo o -prassi molto consueta- di una indefinita e indefinibile idea di partecipazione.

    Ai tempi miei -ma sono tempi lontani- la corsa agli insegnanti migliori era regolata dal loro grado di preparazione e severità. Oggi, pure c’è la corsa a chiedere la classe con gli insegnanti migliori, che, però, sono, quasi sempre, quelli che assegnano pochi compiti, abbondano nelle ricerche (su internet), si prodigano nell’organizzazione di visite guidate in aziende agroturistiche (si mangia, si beve e, poi, si sta all’aria aperta) e in (cosiddette) gite di istruzione a Indiana Golf, a Mirabilandia o a Gardaland, con inevitabile passaggio serale in discoteca. Le motivazioni della scuola e delle famiglie sono che bisogna lasciare un buon ricordo dei giorni vissuti da studenti.

    Vuoi mettere il mito della nascita del mondo con una giornata passata in un parco giochi di gonfiabili o la comprensione del ragionamento che sottende al teorema di Pitagora con un passaggio nella casa dei mostri o un salto nelle canoe dalle cascate posticce di un parco di 10.000 mq di spazi e divertimenti?

    A volte mi capita, in attesa di qualche insegnante assente o ritardatario, di entrare in qualche classe. E che faccio, l’appello o guardo il silenzio? Guardo il diario di classe, mi informo dei compiti assegnati, leggo qualche quaderno (a caso), improvviso una lezione (con preferenza in storia o in italiano, visti i miei trascorsi di insegnante di lettere) o, non certo per valutare, chiedo una verifica di quanto è scritto nello spazio degli argomenti studiati. Che cosa difficile e faticosa! Ci sono numeri palindromi ma anche parole palindrome; anzi, frasi palindrome. Di che si parla? E la divisione in sillabe, gli accenti (Per colpa di un accento/ un tale di Santhià/ credeva di essere alla meta/ ed era appena a metà, G. Rodari), le doppie, la (calli)grafia, la ziqqurat, Muzio Scevola, la giornata della memoria, i 150 anni dell’unità d’Italia…

    Però, ci deve essere il computer! Ecco la parola magica. Specie per gli alunni in difficoltà di apprendimento, è importantissimo l’uso del computer; perché il computer aiuta molto nell’apprendimento delle parole, nella correzione, nelle ricerche, nei ragionamenti. Eppure il computer non ha logica o, meglio, ha una propria logica. Il computer restituisce secondo le domande e i dati che immetti; non intuisce, certo, le risposte che vorresti ti desse. Tanti anni fa, quando acquistai il mio primo computer, cercavo di imparare da solo l’uso delle sue funzioni. Mi venne in aiuto il venditore dell’apparecchio informatico, che si offrì di darmi qualche lezione. Accettai; ma non faceva altro che parlarmi di microprocessori, di circuiti, di unità centrale di elaborazione, di hardware e software.

    Lo ringraziai, non ero quello che cercavo. Avevo bisogno di imparare le cose fondamentali: accendere il Pc (parlo di un tempo antidiluviano), scrivere un testo, salvarlo, stamparlo; creare un archivio. Allora, il mio orbilioso maestro, un po’ offeso e un po’ deluso, mi disse:
    -Lascia almeno che ti insegni il sistema di autocorrezione.
    -Va bene!
    -Scrivi una frase con degli errori.

    Scrissi; tra gli errori che avrebbe dovuto segnalare il computer c’era la parola menno utilizzata al posto di meno; e, invece, non la segnalava. Ripetemmo l’esercizio una decina di volte; il mio orbilioso maestro sudava, si affannava ma niente, la parola menno era sempre lì, statuaria in una propria correttezza che ignoravamo entrambi: l’orbilioso maestro ed io, il professore di lettere!
    Mi venne, allora, di andare a sfogliare il vocabolario. Vuoi vedere che esiste la parola menno! Era proprio così: (Devoto, Oli, Il Dizionario Della Lingua italiana, Le Monnier) menno, agg. lett. 1) Impotente (dal punto di vista sessuale); come s. m. eunuco; estens. Di uomo dai tratti femminei e glabro. 2) fig.(arc.) Privo, mancante [lat. volg. Minuus, estratto da minuere (diminuire)].

    Il computer restituiva ciò che era nella propria conoscenza. E, noi due (ma più stupido io!), a credere che una macchina avesse potuto pensare con la nostra logica!
    Paola Mastrocola, scrittrice di successo e docente di scuola superiore, racconta che un tempo era solita iniziare le sue lezioni, al primo anno di liceo, leggendo Virgilio con la metrica latina. Ora, invece, “faccio la mongolfiera dell’accoglienza. La differenza è tutta qui: Virgilio e la metrica latina rappresentavano un obiettivo, un traguardo, una meta. I ragazzi non capivano nulla di quello che veniva loro letto, ma capivano una cosa importante: che avevano davanti un obiettivo ambizioso. E che lo studio li avrebbe portati molto più in alto di quanto li possa mai portare una mongolfiera disegnata sulla lavagna”.

    La difficoltà maggiore è quando si incontrano insegnanti che avrebbero voluto essere e fare tutt’altro nella vita: attore, cantante, regista, coreografo o altro. È il momento in cui gruppi di alunni loro affidati sono costretti a impegnarsi, per un intero anno scolastico, sulla messa in scena di spettacoli di fine anno teatralcanori (la cui resa artistica, ovviamente, è di livello infimo ma diventa esaltante per l’insegnante e emozionante per i familiari degli alunni, che, a loro volta, si divertono come in un parco di divertimenti).

    Ma si incontrano anche – e meno male, va detto a voce alta!- tantissimi professori, che assegnano un valore altissimo, profondo -oserei dire quasi religioso- all’insegnamento e al conseguente apprendimento. Si mortificano, si incazzano, studiano e si inventano mille strategie per svellere l’apatia, il fancazzismo, la ritrosia a osare, a mettersi in gioco, a rischiare, a cambiare, a studiare da parte di chi è, ormai, convinto che tutto gli sia dovuto: la promozione (con un ottimo voto) come il posto di lavoro (con un ottimo stipendio).

    -Preside, non so più che cosa fare. Lo prendo con le buone e non succede niente; lo minaccio e ugualmente non succede niente. Chiamo i genitori e non si fanno vedere; anzi, quella volta che son venuti poco ci è mancato che non istruissero un processo alla scuola, perché esige troppo dall’alunno, perché mette ansia, perché fa venire gli incubi notturni, perché non si concilia con gli orari della palestra, del catechismo, del calcetto, della lezione di musica, della lezione di cinese, del kinderheime, dell’oratorio, della settimana bianca…

    Il problema si presenta difficile e, spesso, irrisolvibile, perché c’è sempre una giustificazione a tutto e per tutti: la pubertà, l’adolescenza, la barba ispida del professore, l’abbigliamento provocante della professoressa o della compagna di banco, la malattia della nonna, lo smarrimento del cane, l’aula eccessivamente fredda, l’aula eccessivamente calda, l’immancabile fumus persecutionis!
    A volte, le giustificazioni esibite non so se sono più impensabili, irritanti o divertenti. Su internet c’è un sito (w.w.w.notadisciplinare.it), che raccoglie un’ampia antologia di giustificazioni scritte da genitori per i propri figli.
    – Che devo dirti? Proviamo con un’altra convocazione alla famiglia…

    Tanto già lo so che, se si presenteranno, troveranno mille scuse. Qualcuno, addirittura, ad anno scolastico iniziato, chiederà anche un cambio di sezione se non di scuola. Se, poi, non si presenteranno, magari mi scriveranno quattro righe. Non so perché, ma, negli ultimi tempi, le missive giustificative iniziano quasi tutte alla stessa maniera: “Gent. Sig. Preside, vengo con questa mia a dirvi…”.

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